fes concerie

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La medina alle sei del mattino è ancora addormentata, c’è un movimento rado e lento di persone silenziose che si avviano a cominciare la giornata. Ci siamo alzati presto per andare a vedere le famose concerie di Fes prima dell’arrivo dei turisti. Scendiamo lungo la Talaa Kebira, una delle due arterie principali della medina, i piccoli fondi sono quasi tutti chiusi e questo fa sembrare il vicolo molto più largo, dopo poche decine di metri un mulo carico di pelli di pecora ci fa capire che siamo arrivati alla prima conceria, quella meno famosa. Anche qui ci sono le guide zecca personaggi che ti si appiccicano addosso per rimediare qualche soldo, questo parla in automatico meno lo cachi e più insiste. Seguendo il mulo arriviamo ad una fonte dove tre uomini stanno lavando le pelli delle pecore con l’acqua incanalata dal fiume Fes, sono gentili nonostante stiano facendo un lavoraccio tutti zuppi e immersi fino ai ginocchi nell’acqua puzzolente. Come temevo arriva la zecca e si mette davanti all’obbiettivo, comincia a spiegare … “qui lavvare le pelli di animali, questa pelle di animale che fa beeh”. Il mulattiere scarica le pelli sporche e carica quelle pulite, seguendolo si entra in un vicolo chiuso che finisce in un cortile occupato da una serie di vasche bianche piene d’acqua e cacca di piccione dove immergono il pellame, da tutte le parti ci sono pelli stese ad asciugare  sembra di essere sul Golgota dell’oltretomba e di assistere alla crocefissione di migliaia di fantasmi essiccati.
Nelle stanze intorno al cortile al piano terra ci sono delle vasche dove fanno trattamenti con i colori, mentre al livello superiore, con delle lame a mezzaluna, tolgono la lana dalle pelli bloccate sopra dei travicelli murati in diagonale fra le pareti delle stanze all’altezza delle ginocchia.
Sul tetto ci sono i tintori veri e propri che con le mani stanno strofinando i cuoi morbidi con lo zafferano sciolto nell’olio di argan colorando di giallo i resti ovini destinati a diventare babbucce.
E’ un mondo di lavoratori silenziosi e metodici  in antitesi con quello dei mercanti che riempie di voci e urla le vie principali di Fes.
Scendiamo verso le concerie Chouwara, anche qui è un mulo carico di pellame che ci indica la direzione, è una zona frequentata dai turisti lo si capisce dalle tante botteghe.
Qualche scaramuccia coi bottegai, ma poi entriamo nel cuore della conceria.
Siamo nell’arena del puzzo e del colore, le vasche multicolori al centro della scena e tutto intorno le mura bianche e lucide che trasudano degli sgradevoli aromi delle tinture, venti metri più in alto le terrazze dei negozi con i turisti che si affacciano sul “palcoscenico” co’le foglie di menta sotto il naso a mo’ di maschera antigas. I conciatori si muovono sulla scena come attori consumati, fieri di essere nonostante tutto i protagonisti dello spettacolo, nell’arena policroma e cangiante dove ci si sente un po’ bestie e un po’ eroi, nel groviglio nasuseabondo degli aromi inquinati si percepisce   profumo inebriante del protagonismo, magari da attori corrosi e sgualciti destinati al ruolo di  dannati e perdenti, ma sempre meglio che spettatori destinati a fare da cornice che, per quanto linda, sarà sempre e soltanto cornice.
Le fumate della calce viva scaricata nelle vasche nascondono le smorfie di fatica e i tanti sacchetti di coloranti chimici preparano atroci conseguenze sulla cute e sui polmoni di questi ragazzi.
All’inizio sembra tutto casuale e disordinato, ma dopo un po’ ti rendi conto che la tintoria tutta si muove armonica come un organismo, fra le vasche ci sono impercettibili sentierini che non vedi ma che puoi seguire con l’olfatto, ognuno legato a un trattamento, dentro le nuvole di calce si coglie il movimento vigoroso dei conciatori, mani sui bordi delle vasche e poi spingere con le gambe immersi nel veleno fino ai coglioni, il lavoro più ingrato tocca a chi è dentro alle vasche di merda per trattare e tirare fuori le pelli poi destinate alle grandi lavatrici di legno, delle botti piene d’acqua  che girano per mezzo di una cinchia dentata azionata da un motore elettrico che fa tanto Giulio Verne, mentre il cavo della treeottanta che alimenta il tutto con le giunte volanti in mezzo a questo umido putrido fa tanta paura.
Dopo il lavaggio le vasche dei tintori, dove l’omini sembrano polpi perché prendono il colore della buca, poi le pelli trattate vengono messe in una balla e portate al vicino fiume, che in realtà è un fossetto, per il risciacquo ed infine con delle le lame taglienti ripuliscono dalle ultime scorie le pelli tinte e le consegnano ai cucitori.
La tintoria è una congregazione chiusa dove si tramandano il lavoro di padre in figlio da oltre cinque secoli, una setta di maghi alchimisti schiavi del successo della loro merce per il quale immolano ogni possibile diverso scenario futuro. Mentre saluto “i gladiatori colorati” mi torna in mente un minatore boliviano che mi accompagnò qualche anno fa a Potosì in una disgraziata miniera di piompo quasi esaurita e abbandonata della grande compagnia yankie. Continuava a scavare insieme a tanti altri perché lì prima di lui lavorava il su babbo, il su nonno e il su bisnonno e li lavoreranno i suoi figli perché la sua è una famiglia di minatori e quando una compagnia prima o poi tornerà loro saranno lì pronti.
Risaliamo la Medina, le vie sono ritornate strette e dense di gente e di merci ma non riesco a sentirne l’odore perché sono ancora impregnato di conceria.
Rachida ci viene a prendere, è la prima volta da quando siamo partiti che entriamo in una casa “normale” divani, lo stereo, i libri e i giochi dei bimbi, mi sembra tutto gigante e pieno di cose.
Si sveglia Ghali Ahmed, è un bel bimbo che ha appena finito un anno, è moro e ridaccione e mi ricorda tanto Giacomo il mi nipotino biondo e come a Giacomo gli piace giocare e farsi lanciare in alto. Anche Ghali come tutti i bimbi incontrati durante il viaggio è affascinato dalla macchina fotografica e soprattutto dalla sua immagine.
Sono contento di questo incontro e dell’intervista che mi darà la possibilità di raccontare e ringraziare la grande forza spirituale e morale della gente dall’Atlas, profeti della semplicità e maestri di tolleranza e di ospitalità.