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Il mitra, la falce e la betoniera
Il cielo è terso e la temperatura sta aumentando rapidamente, con le bici andiamo al tempio Umm Ubeyda, il tempio secondario di Siwa dedicato al culto di Amon, risalente al tardo periodo Faraonico fu costruito durante il regno di Necnanebo II, sovrano della trentesima dinastia; del monumento rimane poco, un pilone restaurato con bassorilievi che conservano ancora un po’ di colore e rovine sparse tutt’intorno, si vede però ancora molto bene la grande strada cerimoniale che un tempo collegava questo luogo di culto con il tempio principale sulla collina di Aghurmi. Il tempio si era conservato piuttosto bene fino alla fine dell’ottocento, come testimoniano le cronache e i disegni lasciatici dai viaggiatori dell’Ottocento, ma nel 1896 il governatore Ottomano stanziato a Siwa lo usò come cava per costruire il proprio palazzo, smantellandolo completamente. Si prosegue fino al tempio dell’Oracolo ma sta arrivando un pullman di turisti e allora si gira dalla parte opposta dove si sviluppa il villaggio ancora abitato, da qui il tempio dell’Oracolo assomiglia tanto al castello del Volterrio, si affaccia al centro della parete a strapiombo e domina dall’alto con le mura restaurate del Santuario e della Sala delle Profezie, i suoi blocchi di pietra sembrano pronti a sfidare l’avanzare dei secoli più della collina stessa; al contrario il malridotto rudere del torrione della vecchia Aghurmi costruito con argilla, sale e pietrisco, sembra temere anche il posarsi dei falchi. Il cielo terso e la luce bella esaltano il volo elegante dei falchi che nelle fenditure della rocca hanno costruito diversi nidi, ai piedi dello sperone due bimbi stanno lavorando sodo spostando sassi con una carretta, non vogliano essere fotografati e per farmelo capire bene si nascondono dietro la carriola. Torniamo alle bici e ripassando davanti all’ingresso “ufficiale” del tempio dell’Oracolo, ritroviamo i turisti che stanno risalendo sul bus, c’è una guardia armata vestita stile Blues Brhoters con tanto di occhiali a specchio, che con cipiglio da rambo e mitra in mano vigila sulla sicurezza del gruppo per difenderlo dai pericolosi frequentatori dell’oasi, forse da noi, o più probabilmente dal contadino che sta passando con la falce in mano e che impassibile a tutto questo trambusto sta andando verso una palma isolata in cerca di datteri. Andiamo verso i margini dell’oasi in direzione delle prime dune dove si trova l’albergo in cui lavora un ragazzo Siwano conosciuto a internet che parla italiano, per chiedere se c’è la possibilità di rimediare un passaggio per Bahayya. È una grande struttura che fa il verso senza riuscirci all’architettura Siwana, la cosa come pensavo non è fattibile con i nostri bubget, qui sono impostati sui viaggi organizzati e gli equipaggi sono stabiliti in anticipo, e poi anche se ci fosse posto come mi spiega un responsabile “non possiamo mettervi insieme a loro con tutto quello che pagano”.
Ritornando verso Dakrur si incontra un altro stabilimento in corso di ampliamento dove imbottigliano l’acqua, nonostante sia notte ci sono ancora uomini e bimbi che lavorano nei campi intorno a Dakrur.
Grazie a internet parlo con Nicol e Sofia che ogni volta mi sembrano tanto più grandi, che mi raccontano della scuola e delle lezioni di danza, fondamentalmente è questa la grande differenza rispetto ai viaggiatori del passato, questa possibilità di comunicare in tempo reale da quasi tutti i luoghi. Un aspetto assai meno piacevole di questa globalizzazione è la continua trasformazione di Siwa, che da qualche giorno ogni notte si trasforma in un cantiere edile, una squadra di una trentina di ragazzi sta gettando le fondamenta di un nuovo palazzo, anche questo in una posizione paesaggisticamente sciagurata, lavorano con grande lena impastando sabbia e cemento con una betoniera a scoppio e poi riempiono le fondamenta spingendo un carellone con la culla basculante, c’è grande eccitazione perché si guadagna bene e si intravedono miraggi di prosperità, e invece si sta distruggendo un qualcosa di unico, che se conservato sarebbe ricchezza economica e culturale.