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Il lago (troppo) salato
La clio tre volumi ci attende davanti al noleggio, questa macchina è lo gnu delle vetture per quanto è sgraziata (auto dalle linee disarmoniche per i continentali); minuzioso controllo della carrozzeria con il puntiglioso gestore e si parte.
Fiancheggiamo il lago di Bizerte fino ad incrociare lo Oued Tinja che lo collega al lago Ichkeul, lungo il canale c’è un sistema di chiuse per favorire l’ingresso delle acque del Bizerte e cercare in questo modo di compensare il diminuito apporto di acqua dolce dovuto alla costruzione di dighe a monte sui torrenti che alimentano il lago Ichkeul.
Si prosegue lungo una strada rialzata che attraversa una zona paludosa al confine con l’area del Parco che è tutta recintata, si vedono tante garzette, qualche gheppio e un grande falco di palude. Arrivati all’ingresso si fa il biglietto (un dinar) e si prosegue per un paio di chilometri incontrando  un piccolo douar intorno al quale pascolano capre e mucche e poi si parcheggia nella zona dell’Hamman dove la gente viene a curarsi  le articolazioni e la malattie della pelle con le acque calde (quaranta gradi) salate e ricche di zolfo.
Oggi però non c’è nessuno, solo un guardiano che pennica sotto un tamerice.
Assieme alla laguna di El Kala nella vicina Algeria, questo bacino è il più importante luogo di svernamento dell’area del mediterraneo e gli uccelli arrivano qui da tutta l’Europa.
Il lago Ichkeul è unico e conosciuto in tutto il mondo per le variazioni stagionali di salinità, in inverno ha una salinità molto bassa, 5 grammi al litro, mentre in estate arriva ad essere superiore ai 30 grammi al litro, cioè è più salato del mare perché i fiumi si seccano e non arriva più acqua dolce.  Questo fenomeno, unito alla forte evaporazione, fa calare il livello del lago che diventa più basso del lago di Bizerte (mare) quindi le acque salate precipitano attraverso il canale Tinja dentro l’Ichkeul e la salinità aumenta enormemente. Questa situazione unica di variazione di salinità aveva  permesso lo sviluppo di un ecosistema molto ricco e complesso anche per gli animali stanziali, oggi però, le dighe costruite per i crescenti bisogni di acqua dolce per le abitazioni e per l’agricoltura hanno alterato i delicati equilibri delle acque, la salinità rimane elevata anche nella stagione delle piogge con il risultato che alcune specie vegetali che erano fonte di cibo per gli uccelli sono scomparse ed altre come le canne e i giunchi si sono ridotte di molto. Il delicato equilibrio alterato ha già portato a una grande diminuzione di presenze di volatili e sta creando grossi problemi anche  alle lontre presenti nel lago.
Mi si figurano nella mente le formazioni di uccelli che a fine estate passavano sopra l’Isola, volavano decise puntando il sud della Corsica, disegnando delle v oscillanti fra cielo e mare, probabilmente erano dirette proprio qui. La riflessione che il mondo è la casa di tutti e i confini sono solo una follia inventata dall’uomo è banale e scontata ma anche sacrosanta. Tre dighe; e un equilibrio millenario viene stravolto per sempre.
Dal lago cominciamo a risalire i fianchi dal Jebel Ichkeul camminando fra lecci, lentischi, mortelle e tanti olivastri, dove sono numerosi i merli e le tortore, poi cambiato versante si scende verso il lago dove fanno bella mostra un paio di gruppi di fenicotteri rosa che pasturano. Scendiamo al livello del lago, la macchia di leccio lascia il posto a un’intricata “foresta” di tramariggini (temerici) che arrivano fino alla battigia, ma in inverno l’acqua entra fra gli alberi per almeno duecento metri. Nonostante tutti i problemi il lago comunque é ricco di vita, ci sono garzette, aironi, germani e oche, ma i protagonisti sono i fenicotteri rosa che sono a trecento metri dalla riva. Provo ad avvicinarmi ma camminare nel lago è complicato nonostante la profondità di pochi centimetri, perché sfondo nel fango morbido e adesivo fino alle caviglie, è quasi impossibile avanzare ci vorrebbe un peso da fenicottero o un kayak, per un attimo ripenso alla prima idea di viaggio, quella con Cinghio, il kayak e le bici. Visto da dentro l’Ichkeul (che è veramente salatissimo) è ancora più vivo, ci sono un sacco di arsellone e pesci che aggallano, probabilmente muggini, i più scenografici sono i branchi di microscopici pesciolini che increspano impercettibilmente la superficie del lago nuotando a pelo d’acqua, passano anche un paio di piccoli serpentini che sembrano volare sulla densa acqua salata.
Ritorno a riva e ci incamminiamo verso il monte, la luce è molto bella c’è un sole potente che filtra fra le nuvole, in verità sempre più minacciose, i fenicotteri si alzano in uno spettacolare volo, è un ambiente silenzioso e ricco di vita animale, ci sono tanti falchi e alcuni veleggiatori veramente grandi. Arriva uno scroscione violento e ci ripariamo nell’ecomuseo che è aperto anche se non c’è nessuno, proprio come dovrebbero essere le case del Parco da noi.
Passata la buriana torniamo alla macchina e si prosegue per
Bulla Regia (e la Villa sotterranea di Venere)
attraversando una campagna brulla contornata da fichi d’india, passando prima per Mateur e poi per Beja, una città di campagna piuttosto estesa che si sviluppa su una collina contornata da coltivi, dove ci fermiamo per comprare il pane. L’edificio più grande è la chiesa  sconsacrata che anche qui è diventata un centro culturale, la città si sta animando e il mercato della medina brulica di gente, il mare è già lontano e le fisionomie dei passanti sono quelle affilate dei berberi, già si respira l’entroterra Africano con la gente che arriva dai villaggi di campagna nella città di riferimento con carri e ciuchi. Si riparte veloci e passata Jendouba, dopo pochi chilometri, i ruderi imponenti di templi e edifici in laterizio ci dicono che siamo arrivati alla famosa Bulla Regia. Non c’è nessuno solo un custode che ci dice che la chiusura è anticipata per il Ramadan e che abbiamo meno di un’ora, comunque intanto si entra. Questa città è famosa per le ville sotterranee che i nobili romani costruirono per ripararsi dalla calura, all’interno delle quali si sono conservati perfettamente i pavimenti a mosaico.
Attraversiamo velocemente la parte bassa della città antica, quella pubblica, per visitare subito, visto il poco tempo a disposizione, il quartiere “bene” che si trova in alto. Le ville visitabili sono sette, tutte molto belle e suggestive, sono scavate nella roccia e ci si accede da scale che sembrano portare dentro delle cisterne, ma poi si apre uno spettacolo meraviglioso di colonne e pavimenti a mosaico perfettamente conservati, reso ancora più suggestivo dalla luce che filtra dai lucernari e dalla temperatura assai confortevole. La villa più bella è quella detta di Anfitrite soprattutto per il grande mosaico che ritrae venere nuda insieme a due centauri che emergono da un mare ricchissimo di pesci. Arriva il guardiano e anche una guida anziana e brontolona, subito ci dicono che bisogna andare ma poi ci concedono ancora un po’ di tempo, così si gironzola ancora un po’. L’ideale sarebbe poter restare fino al tramonto per fare qualche bella foto ma va già bene così e poi il fatto di essere soli è un gran lusso. Ritorniamo verso il basso percorrendo le vie lastricate che contrariamente al solito sono sinuose perché Bulla Regia fu costruita su un precedente insediamento edificato intorno al quinto secolo avanti cristo durante la dominazione Cartaginese, successivamente, dopo la caduta di Cartagine, divenne città Numida sotto il controllo di Roma, ma la città raggiunse il suo massimo splendore quando l’Impero ne assunse il controllo diretto fra il  II e III secolo ed infatti gli edifici più belli risalgono tutti a questo periodo. A seguire ci fu la dominazione Bizantina che ha lasciato i ruderi di due basiliche e qualche mosaico che per quanto bello non è paragonabile per grazia e magia ai capolavori precedenti, la città poi fu abbandonata nel VII secolo con l’avvento degli Arabi.
Si passa davanti a una piccola oasi che si trova proprio nel mezzo degli scavi, qui c’è la sorgente che un tempo alimentava Bulla Regia e oggi alimenta la moderna Jendouba. Raggiungiamo il tempio di Apollo e poi si entra nel Foro, un grande rettangolo lastricato con intorno i grandi piedistalli che ospitavano le statue di Dei e Imperatori e poi la zona dei mercati con i canali per le porte a scorrere delle botteghe, è una Pompei Africana fra le palme e senza Vesuvio. I Romani erano maestri di idraulica e si vedono ancora molto bene i canali che arrivano dalla sorgente e quelli  di scolo delle acque scure che allacciano anche le massicce latrine di marmo.
C’è anche un piccolo tempio dedicato a Iside divinità egizia adottata dagli eredi di Romolo e Remo (il cui culto al tempo sembra essere giunto fino all’Elba come testimoniava l’effigie che uno  stronzo si rubò qualche decennio fa dalle mura della chiesa di Santa Caterina d’Alessandria a Rio Elba) e poi si arriva al teatro dove c’è un mosaico che raffigura un orso possente al centro della scena. Il custode si riaffaccia dando segni di impazienza ma ormai voglio vedere anche le gigantesche terme pubbliche intitolate a Giulia Mummia moglie dell’Imperatore Settimio Severo, dove si possono ammirare i ruderi delle grandi fornaci usate  per riscaldare l’acqua e una serie di ingegnosi sistemi di tubazioni in laterizio, per distribuire acqua e vapore per il calidarium e i canali provenienti dalla sorgente per il frigidarium.
Lasciamo con rammarico questo luogo eccezionale, ringraziando il guardiano per la concessione e ripartiamo, mentre la voce lamentosa del muezzin della grande moschea di Jendouba canta le litanie coraniche, in direzione di
Ain Draham (Il bosco al confine)
che dista una quarantina di chilometri. Risaliamo verso nord avvicinandoci al confine Algerino, la strada sale dolcemente e si incontrano più asini che auto, piano piano il paesaggio cambia e comincia a diventare più verde, prima i pini e poi lecci e sughere mentre la strada diventa più tortuosa e bella da guidare, è un ambiente vagamente Corso. Passiamo davanti ad un grande centro sportivo e poi arriviamo a Ain Draham, un paesone a novecento metri di quota adagiato sotto le pendici del Jebel Biri (1014 metri) il monte più alto della piccola catena del Kroumirie che si estende da qui verso la costa e che in inverno è spesso coperta di neve. C’è l’aria fina come sulla montagna Elbana e la macchia è in prevalenza di quercia da sughero che qui è anche la risorsa principale. Dal paese parte un sentiero che porta al Col de Ruines, è un ambiente fresco e ombreggiato da grandi querce, ci sono le felci aquiline, l’erica arborea e le coti sono ricoperte di muschio e fra i frenelli verdi spunta anche qualche fungo. È un’Africa molto lontana da quella che ci si immagina dall’Europa, però in questi boschi all’inizio del novecento c’erano ancora leoni e leopardi che sono stati estinti per sempre da questa zona dai cacciatori francesi in cerca di trofei.
Dal cocuzzolo, che assomiglia incredibilmente alla vetta del Monte Tambone, il panorama è notevole, si vede il mare di Tabarka e le colline verdi dell’Algeria che dista solo un paio di chilometri, superare la frontiera passando per la macchia non dovrebbe essere un problema, anche se ci sono diverse caserme militari, vista da qui la terribile Algeria sembra un posto tranquillo e familiare, con morbide colline verdi che arrivano fino al mare.
Manca poco al tramonto quando  riprendo la vettura per prendere la strada per Tabarka che è fiancheggiata dalle sughere fin quasi al mare. L’arrivo nella famosa
Tabarka (i Liguri Africani)
è un po’ deludente, tanti palazzi, anche qui il morbo del cemento dilaga con alberghi e residence che stanno devastando un tratto di costa meraviglioso. Il centro fu fondato dai Fenici nel quinto secolo avanti cristo e durante la dominazione romana, grazie al suo ridosso sicuro, divenne un porto importante da dove si imbarcavano i marmi provenienti da Chemtou e i felini destinati agli spettacoli nelle arene Europee. Tabarka è famosa anche perché fu parte del riscatto che Khair el Din pagò ad Andrea Doria nel 1544 per liberare Dragut che era prigioniero nelle galere genovesi. Il braccio destro di Barbarossa era stato catturato quattro anni prima da Giannettino Doria  nelle acque della Girolata in Corsica. L’isola di Tabarka venne data in concessione ai Lomellini, famiglia vicina ai Doria interessata allo sfruttamento del già famoso corallo rosso, i quali  fecero colonizzare questo lembo Africano da alcune famiglie di Pegli e si adoperarono per la costruzione del forte che ancora oggi domina questo tratto di costa.
Il tempo si mette al brutto e viene anche qualche goccia, facciamo un giro nel porto alla ricerca di qualche barca disposta a portarci a La Galite ma senza risultato, solo il “raccatta turisti” di un osceno finto galeone battezzato Hannibal cerca di convincerci a fare un’escursione con la sua chiatta “gardalandyana”. In porto lo scafo più affascinante è quello di un vecchio veliero bianco elegante e misterioso, è messo un po’ male ma questo lo rende ancora più affascinante, poi ci sono un po’ di pescherecci, le barche dei diving e quelle dei corallari. Si ritorna verso Bizerte che dista da qui circa centocinquanta chilometri, i paesi che si incontrano lungo la strada sono pieni di gente  con i cafè strapieni di uomini che guardano le telenovele egiziane alla televisione, bisogna fare attenzione perché nelle notti di Ramadan nelle strade dei paesi c’è sempre agitazione e anche fuori dai centri urbani c’è da stare vigili, qui la gente ha il vizio di camminare in mezzo alla strada  e i  motorini sono quasi tutti senza fanali.
La luna illumina il Jbel Ichkeul, siamo di nuovo al lago, questa volta  passo dall’altro lato dove ci sono diversi rapaci notturni appollaiati sui pali ai bodi della strada, soprattutto barbagianni e gufi, poi si arriva a Bizerte che è già domani.