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Degrado e censura a Menfi, tramonto da Shepseskaf e il villaggio fra le palme

Menfi
Come sempre superata la zona di Giza, dove il problema principale sono i cacciatori di turisti che ti  vedono come un portafoglio viaggiante, il problema diventa farsi capire, siamo su uno dei tanti sfasciati minibus che scendono lungo lo stradone dritto fino a Dahshur, ripeto più volte “la fermata dopo Saqqara, La (no) Ahramat (Piramidi), Menfi”. Ma qui sembrano tutti impostati in automatico e ogni richiesta diversa dall’ordinario destabilizza, se non ti fermi a Giza ti devi fermare per forza a Saqqara, gli  altri posti “la, solo arabia”. Per fortuna un ragazzo gentile che viaggia con noi sul pulmino capisce e spiega al conducente dove si vuole scendere. Il ragazzo ci accompagna attraverso la strada del villaggio per un paio di chilometri, fino a quando si vede la zona adibita alle visite. Menfi oggi è un grande villaggio sgarrupato che trasuda povertà e malessere, mentre si cammina la gente ci guarda con curiosità e sospetto come se fossimo alieni. Eppure siamo a Menfi, il cuore dell’Antico Egitto, qui sorgeva la leggendaria e Magnifica Capitale dell’Antico Regno, la città che fu fondata intorno al 3100 avanti cristo dal mitico Narmer unificatore del Basso e Alto Egitto e primo Faraone della storia. Narmer, in origine sovrano dell’Alto Egitto (sud), volle qui la sua capitale, dove finisce il Delta e inizia il Nilo, nel punto dove il Basso e l’Alto Egitto si incontrano, a simboleggiare l’Egitto unificato. Questo è uno dei luoghi storicamente più importanti dell’umanità, è qui che inizia l’era dei Faraoni, forse la più straordinaria civiltà che il pianeta abbia mai ospitato, che con alterne vicende andrà avanti per 3500 anni. Menfi rimase una delle città più grandi e importanti del mondo antico fino alla conquista araba del VII secolo d.c. quando venne abbandonata e usata come cava per costruire il Cairo, la capitale islamica dell’Egitto. Oggi a memoria di questa storia plurimillenaria, almeno apparentemente non è rimasto niente e se non fosse per il suo grandioso “cimitero” della monumentale città dei morti che si estende da Giza a Dahshur con le sue sensazionali sepolture, rimarrebbero solo le descrizioni della sua grandiosità lasciateci da Erodoto, il grande storico viaggiatore dell’antica Grecia, che la visitò nel quinto secolo avanti cristo, duemilaseicento anni dopo la sua fondazione.
Intorno al museo, che in  realtà è un grande giardino recintato, come al solito tanti poliziotti armati, si fa il biglietto e si entra, su tutto spicca una grande statua in calcare di Ramses II distesa e protetta da una copertura, la magnificenza del gigante di pietra stride con la lardosa goffaggine di un gruppetto di turisti americani in pantaloni corti e canottiera che gli girano intorno con movenze da barbapapà. Con Ramses il Grande, divenuto Faraone nel 1279 a.c. siamo nel Nuovo Regno quando Tebe era divenuta la città più importante del regno, ma la grandiosità di questa statua fa comunque intuire quanto Menfi fosse ancora importante. Il volto del gigante mi osserva fiero e pacato nella sua statica perfezione, privo di espressione e sentimenti apparenti, con distaccata superiorità faraonica, consapevole della sua  immortalità.
Nel museo giardino ci sono un paio di altre belle statue in granito di Ramses, una favolosa sfinge e i grandi piani di pietra su cui venivano mummificati i tori sacri Api, ma niente che giustifichi il nome di Menfi Antica dato a questo recinto, sicuramente qui intorno ci sono ancora tante tracce del glorioso passato anche se tutto e tutti sembrano ignorarlo, anche il poliziotto che al fresco di un albero sta leggendo il giornale con il mitra appoggiato al tronco. Una volta usciti provo ad entrare nella zona recintata esterna al museo, il poliziotto di piantone qui è un ragazzino che ascolta la musica dal cellulare e mostrandogli i biglietti del museo ci fa entrare, ma appena si mette i piedi dentro arrivano di corsa tre o quattro poliziotti urlanti con tanto di mano sulle pistole e ci fanno uscire con la classica spiegazione “No!”
Facciamo un giro largo e poi da una strada usata dalla gente del posto si rientra nella zona “proibita” che è ricca di tracce archeologiche, ci sono grandi muri in mattone crudo e basamenti di importanti edifici in pietra e un sito particolare con grandi blocchi a forma di testa umana con fronti  molto larghe che poi scendono a triangolo sul mento, con orecchie somiglianti a un felino più che a una persona. La zona è interessante ma arriva un tipo aggressivo che ci manda via dicendo che qui i turisti non ci possono stare. La Menfi attuale è una discarica, le rovine e i visitatori e la realtà devono rimanere due mondi separati, i tutori dell’ordine si capisce che hanno ordini ben precisi, gli stranieri non devono vedere che le rovine della favolosa Menfi giacciono sepolte sotto la spazzatura  circondate da capanne, case di mattoni crudi e sciamannati cubi di cemento dove la gente vive in condizioni di degrado indegne. Due mondi tenuti separati che si cerca in tutti i modi di non fare incontrare. Ritorniamo sulla via principale dove i bus dei turisti attraversano veloci la strada fino al recinto-museo pieno di guardie armate, non c’è rispetto per la gente sulla via a piedi, in bicicletta o sul ciuco, le corriere passano come turbini se non vuoi essere schiacciato ti devi spostare e ti lasciano solo una scia di vento polveroso, non so chi non odierebbe queste corriere e i loro occupanti se vivesse qui. Una delle attività principali in questa baraccopoli è la lavorazione del legno di palma, i tronchi vengono sbucciati con delle specie di zappe, è un lavoro che viene fatto da squadre di ragazzini, poi si procede alle varie lavorazioni, della pianta si sfrutta tutto dalla corteccia alle fronde, gli artigiani con grande abilità fabbricano letti, sedie, tavoli, ma è tutto intristito dai cumuli maleodoranti di spazzatura e dalle continue richieste in automatico “money, money, money” cerco invano di incrociare uno sguardo con una scintilla di curiosità comunicativa, ma trovo solo luce di rabbia e rassegnazione. Entrando nella via interna si incontra una bimba bellissima, una bellezza da bambola che cammina vanesia insieme ad una donna, forse la nonna, nella polvere del vicolo, un’immagine bella che l’anziana spenge in un attimo spingendomela contro e comandandola a chiedere un baschish. Arrivati sul ponte dove stamani il pulmino ci aveva lasciato, lo si attraversa per arrivare al villaggio e poi ritrovare il deserto della sponda occidentale, ma si cammina poco, una pattuglia della polizia ci ferma “stop no possibile dangerous”. Dopo una discussione in cui elencando i soliti pericoli di persone pericolose e distanze enormi, cercano in tutti i modi di farci tornare verso le zone turistiche caricandoci sui mezzi di trasporto, facendomi forza del fatto che non ci sono divieti si prosegue e il poliziotto più insistente dopo un breve inseguimento viene richiamato dal suo superiore. Appena lasciata la zona controllata per la protezione dei turisti il clima cambia e il pesante alone di malessere che ci avvolgeva si dissolve, il vialone di asfalto circondato dai canali arriva fino al cuore del villaggio, dove nella piazzetta polverosa è allestito un piccolo souk dove si vendono ortaggi e frutta. Micro banchi spesso formati da un telo o da una cassetta di legno di palma, spicca una donna anziana che vende pomodori, ha gli occhi piccoli e pungenti, di un colore strano sembrano di cenere bagnata, probabilmente è quasi cieca ma questi spilli grigi le accendono un’espressione da strega che viene accentuata dal volto rugoso, i grandi orecchini d’oro e il vestito nero completano l’opera, sembra la sorella povera di Palpatine. Finito il paese si entra nell’oasi, il palmeto è un altro mondo fatto di pace, ombra e gentilezza, questo è il regno dei fellah, i contadini che coltivano questa terra sciolta, aiutati dalla grande ricchezza di acqua. Si muovono scalzi e spesso hanno la schiena curva per la tanta fatica, il loro lavoro principale è quello di scavare i solchi per l’irrigazione e regimare le acque, sono persone semplici e gentili, è difficile salutare per primi e se sono fermi a riposare ti invitano sempre a prendere un the insieme a loro. La Menfi dei mondi separati e dei poliziotti sembra lontanissima. Purtroppo anche qui nei canali c’è tanta spazzatura e gli ibis che ci zampettano dentro sono diventati grigi da quanto sono sudici. Si cammina fra campi di erba medica e grandi estensioni di palme da dattero sotto le quali ogni tanto spunta una tettoia che ospita qualche bufalo, avvolti nel  silenzio che è interrotto solo dal rumore delle pompe a scoppio che spingono l’acqua nei coltivi più lontani dai canali.
Il tramonto delle Piramidi
Dopo le ultime palme è subito deserto, un confine netto, percorri dieci metri ed è subito sabbia, polvere e caldo. Si sale la prima duna e si sbuca direttamente nella grande necropoli del deserto occidentale  nella zona di Saqqara, un paio di chilometri a sud della grande piramide a gradoni. Anche questa come la zona di Abu Sir è interdetta alle visite, dopo pochi minuti ci troviamo dentro una grande area sacra, ricca di strade lastricate e mastaba, è una zona molto ampia che ha ricevuto massicci lavori di restauro. Ci sono tanti muri rifatti e anche delle grandi punte ricostruite a forma di piramide, ma ora il sito è in abbandono e la sabbia sta lentamente ricoprendo tutto. Dai cumuli dello scavo in gran parte formati da rocce bianche, si vede a poca distanza la piramide di Pepi I (2321- 2287 a.c.) il Faraone della VI dinastia successore di Teti di cui abbiamo visitato la piramide ieri. Anche se molto rovinata questa piramide conserva comunque la sua sagoma geometrica, camminiamo fra i tanti resti del suo imponente tempio funerario sparpagliati nella sabbia e poi si prova ad entrare nella piramide ma l’ingresso è chiuso da un robusto cancello allucchettato. Proseguendo verso sud il terreno diventa pianeggiante e un gruppo di ragazzini ne ha approfittato per imbastirci una partita a pallone a cui mi aggrego volentieri dando sfoggio a tutto il mio talento latente alzando grandi nuvole di sabbia.
Continuando verso sud arriviamo nella zona più interessante di questo settore dell’immensa necropoli di Menfi, dove si elevano la piramide di Pepi II e la gigantesca Mastaba di Al Faraun.
Pepi II è passato alla storia per essere stato il Faraone più longevo della storia dell’Egitto, salito al trono ancora bimbo regnò per novantaquattro anni dal 2278 al 2184 a.c. Ma oltre alla longevità, Pepi II non sembra aver avuto grandi meriti, anzi la storia ricostruita dagli egittologi ci dice anche che l’ultimo “vero” Faraone dell’Antico Regno è stato il principale artefice del declino del potere centrale, sotto la sua reggenza, probabilmente anche per la sua anomala lunghezza, il potere dei funzionari periferici divenne così forte da non riconoscere più l’autorità assoluta del sovrano e da lì a breve iniziò il cosiddetto Primo Periodo Intermedio.
Il sito, complice anche la luce bassa del tardo pomeriggio, è molto suggestivo, la Piramide che in origine era alta cinquantadue metri, ha perso tutto il rivestimento esterno e da vicino pur perdendo di geometria, acquista di imponenza per la grandezza dei blocchi. Purtroppo anche qui è impossibile accedere alla parte interna, però tutt’intorno, specialmente sul lato est, ci sono tante tracce evidenti dell’area sacra di questo tempio funerario, ci sono ben conservati grandi blocchi di granito rosso con incisi profondi geroglifici e resti di disegni che mantengono ancora tracce di colori, i meglio conservati sono dei blocchi con le stelle in rilievo, che mantengono un azzurro ancora molto vivo a dispetto degli oltre quattromila anni di vita. Poche decine di metri più a est un altro grande monumento ancora più affascinante, antico e originale: la grande Mastaba di Al Faraun, altro non è che il monumento funerario di Shepseskaf (2503-2498 a.c.) il figlio di Micerino e ultimo faraone della quarta dinastia. Questa enorme mastaba, che è un po’ una piramide nella prima fase costruttiva, probabilmente è stata completata come mastaba proprio per prematura scomparsa di Shepseskaf, rimane comunque un monumento imponente costruito con blocchi giganteschi di calcare. Per salire sulla sommità bisogna fare una piccola scalata, ma la vista di cui si gode da questo altopiano artificiale è impagabile e resa ancora più magica dalla luce del tramonto e dal fatto che ci siamo solo noi. Davanti a noi infuocati nella luce del tramonto i simboli più straordinari dell’Antico Egitto, le grandi piramidi dell’Antico Regno, i più grandiosi edifici in pietra che l’uomo sia mai stato in grado di costruire. A nord si staglia imponente la prima Piramide a gradoni di Zoser, il capolavoro del geniale architetto Imhotep che quarantasette secoli fa fu in grado di ideare e realizzare questo colosso, voltandosi a sud magicamente illuminate le due grandi piramidi di Dahshur volute da Snefru, il fondatore della mitica quarta dinastia, la poderosa Romboidale e la magnifica Piramide Rossa perfetta e simmetrica nei suoi 105 metri d’altezza. Erano passati poco più di cinquant’anni dal capolavoro di Imhotep e gli architetti di Snefru avevano realizzato la piramide perfetta, che poi farà da modello per quelle dei suoi successori, suo figlio Cheope e suo nipote Chefren, che di seguito faranno costruire le più grandi Piramidi mai realizzate di cui si riconoscono le sagome impeccabili che si stagliano nell’orizzonte violaceo a settentrione. Questo è il momento di massimo splendore e potere per i Faraoni, da qui inizia il declino, la piramide successiva, quella di Micerino non regge assolutamente il confronto e suo figlio Shepseskaf è rimasto addirittura senza Piramide. Mi piace questo tramonto dalla sommità della Mastaba di Shepseskaf, è il luogo perfetto per evocare ed enfatizzare il tramonto dell’epoca grandiosa, unica e irripetibile delle grandi Piramidi.
Con il tramonto la temperatura si abbassa di botto, mentre la chiamata dei muezzin in una smisurata  sovrapposizione cacofonica, si estende in ogni dove, è innegabile che questo sia il tempo dell’Islam in Egitto. Si cammina in direzione del grande palmeto e vi entriamo qualche chilometro più a sud rispetto al punto da cui ne siamo usciti oggi, c’è curiosità e stupore nel vederci passare dentro il villaggio, si cammina controcorrente al flusso degli uomini che si sta dirigendo compatto verso la moschea, fa una certa impressione questo convergere da ogni viottolino verso la moschea e il movimento dei camicioni chiari accentuato dalla luce ormai crepuscolare rende tutto molto suggestivo. Il villaggio ha un che di fiabesco con le case capanna e le strade di sabbia dove in ogni angolo c’è un’anfora di coccio con l’acqua per bere, ma sono soprattutto gli sguardi amichevoli a rendere piacevole questo passeggio come sempre accompagnato dai bimbi. Arriva il buio e tutti ci offrono aiuto e ci propongono merenda e the, purtroppo la polizia non permette di stare qui e dobbiamo tornare verso il Cairo. Dei ragazzi ci accompagnano fino ad un incrocio dove saliamo su un tuc tuc insieme a una famiglia divertita dalla nostra presenza, scaricati gli altri il bimbo autista ci accompagna alla strada principale e poi se ne ritorna al villaggio dove, secondo i racconti dei poliziotti e delle guide turistiche, si trovano i covi dei tremendi terroristi.
Soliti minibus e metro e ultimo mix frullatone, poi andiamo al Kunst per salutare Abbas e gli altri amici che sono stati molto gentili con noi, domani si parte.
Sono contento, oggi è stata una giornata densa, ma in realtà è già ieri da un po’, sono le tre e mezzo quando scrivo questi appunti.

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