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I Garamanti

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Il Museo della Jamahiriya e il pennarello censorio
Per prima cosa dobbiamo prelevare perché siamo a secco, qui in Libia non è semplice perché le banche non cambiano e i bancomat funzionano solo col circuito nazionale. Il posto per cambiare è il grand hotel el kebir che si trova poco dopo la piazza verde, è un albergone gigante e lussuoso pieno di metal detector e poliziotti in borghese, dove c’è un gran traffico di uomini d’affari. Dentro la hall, dietro una parete di vetro c’è il business centre e a fianco l’agenzia di cambio, c’è un gran fermento, evidentemente in questi periodi l’economia libica sostenuta dal petrolio sta attirando capitali e speculazioni. Si cambia e poi si va al castello Assai Al-Hamra per visitare il museo, nell’ampio ingresso davanti a un grande mosaico proveniente da Leptis Magna che ritrae combattimenti di gladiatori, è esposta in grande evidenza una statua di venere ritornata in Libia nel duemila dopo che era stata portata in Italia durante il periodo coloniale. Ritroviamo un grande albero fossile come quelli che abbiamo visto nel deserto dell’Acacus qualche giorno fa e fra il tanto materiale esposto c’è anche il maggiolone che Gheddafi usava nel ‘69 al tempo della rivoluzione. È un museo che si sviluppa in grandi spazi, nella sala dedicata alla preistoria ritroviamo le foto dei paesaggi e dei graffiti e pitture dell’Acacus e anche la famosa mummia del bimbo che il Prof. Fabrizio Mori trovò nel 1958 nel Wadi Tashwainat. La parte storica inizia con la sala dei Garamanti a cui viene data tanta enfasi anche per mostrare che la Libia aveva già una propria civiltà prima di essere colonizzata dalle potenze straniere, ci sono soprattutto resti di sepolture e dei disegni molto belli che finalmente ci fanno capire qual era l’aspetto di questi antichi abitanti del Fezzan, a metà strada fra gli antichi egizi e i rasta. L’esposizione prosegue con le sale dedicate ai fenici e ai greci dove rimango colpito da una bellissima raffigurazione delle tre grazie proveniente da Cirene, poi si arriva nella parte più grande del museo quella dedicata agli antichi romani, si entra in un enorme salone sapientemente illuminato, con ampie scenografie degne di holliwood, esposti ci sono grandi mosaici e gigantesche statue di divinità e imperatori. L’ambientazione è suggestiva e fra tanta bellezza spiccano le eleganti statue di Venere e Artemide che fiere e sensuali schiacciano in un confronto impietoso le cupe e imbacuccate custodi del museo. Si prosegue camminando fra le enormi statue bianche di personaggi come Adriano, Marco Aurelio, Lucio Vero …. Anche al piano superiore continua l’esposizione del periodo romano, insuperabile per grandiosità e ricchezza. Passando per il periodo bizantino si arriva all’arte islamica a cui viene dato tanto spazio, a me però non entusiasma, per come la vedo io dal punto di vista artistico è un’involuzione. Poi c’è tutto un piano dedicato ai costumi e alle tradizioni delle etnie libiche con ricostruzioni di scene di vita quotidiana e manichini abbigliati con i costumi tradizionali. Il museo torna interessante al quarto piano con la sala della resistenza dove ci sono raccolti tante foto e documenti, è sempre molto imbarazzante visitare un museo dove gli italiani sono visti come i nemici, avevo avuto la stessa sensazione visitando il museo della seconda guerra mondiale a Malta una quindicina d’anni fa. Fra le tante foto spiccano quelle dei partigiani a dorso di dromedario e quella di una fiera donna berbera armata. C’è anche il mitico ritratto di Omar Al-Mukhtar eroe indomito della resistenza libica passato alla storia come “il leone del deserto”. Mi incuriosisce una mappa dove con grande evidenza è segnalata l’Isola d’Elba, non so cosa sia ma mi sembra di intuire che qualche personaggio della resistenza libica sia stato confinato dalle nostre parti. Poi si passa nei saloni dedicati alla Libia rivoluzionaria che sono una grande celebrazione della figura di Gheddafi ritratto dall’infanzia ai giorni nostri, le pareti sono piene di foto del Colonello ritratto con tanti capi di stato fra cui una gigantografia insieme a Fidel Castro. Fra le tante immagini anche quelle delle donne soldato della sua scorta e poi una serie di ringraziamenti ed elogi fatti dal popolo libico al suo leader. Grande risalto è dato al petrolio con foto, panelli e una serie di ampolle in cui si conserva il prezioso idrocarburo, la massima ricchezza della Libia decantata come l’essenza più pura del mondo. Dal petrolio si passa alla celebrazione del Grande Fiume dell’Uomo, orgogliosamente titolato come l’ottava meraviglia del mondo. Per ultima la parte naturalistica in gran parte costituita da materiale raccolto da italiani, come testimoniano le didascalie interne, e una sala inquietante dove sono esposti una serie di animali deformi imbalsamti e feti mostruosi sotto spirito.
Oggi è una giornata fresca, spira un vento forte da nord che ha alzato anche una mareggiata, cerco invano un fotografo per ripulire la macchina fotografica dalla sabbia del deserto, camminando per questa città si ha la sensazione di essere in Italia, i palazzi, le vie e anche i marciapiedi sono gli stessi. Ci troviamo davanti a un cinema che espone un gran manifesto del Leone del Deserto, il film dedicato a Omar Al-Mukhtar, all’esterno c’è anche la locandina del film del giorno “Facile Preda” dove alla protagonista è stata dipinta con il pennarello una censoria maglietta nera per non turbare i pudici mussulmani, mentre dentro il cinema in un angolino c’è la locandina originale con Cindy Crawford scollata.
Tripoli è una città in grande espansione, nel centro è tutto un demolire e ricostruire, vengono abbattuti palazzi apparentemente in ottimo stato per ricostruirne altri più grandi e moderni, la zona commerciale è in grande espansione stanno nascendo decine di grattacieli, veri e propri colossi di cemento a acciaio, sono cantieri enormi che lavorano anche la notte in buona parte appaltati a ditte italiane. Di  notte sbirciando fra le paratie metalliche che delimitano il cantiere si ha una visione apocalittica di ruspe, betoniere e gru che manovrano sotto la luce dei riflettori e tanti operai in tuta e elmetto che si muovono intorno come formiche. All’esterno gli operai alloggiano nelle baracche, ci sono le squadre che si stanno preparando al cambio del turno, sono tutte persone provenienti dall’Africa interna, probabilmente arrivati qui in cerca di fortuna con uno dei tanti camion che risalgono la Libia provenienti dal Ciad, dal Niger e dal Mali, ragazzi partiti da villaggi dove l’unica cosa sicura è la fame, luoghi dove si vive con poco più di nulla, si ritrovano a costruire alberghi, centri commerciali, sedi di banche e multinazionali finanziati dal petrolio libico. È tutto gigantesco e innaturale e mi domando cosa ne sarà di tutto questo fra cinquantanni quando le risorse petrolifere della Libia e probabilmente anche quelle idriche saranno esaurite.