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Sveglia 5.30, facciamo colazione col burro fuso, la specialità di Taarart, Baali ci dice che il passo per  Midelt è chiuso, c’è troppa neve per valicare dalle piste di montagna, per arrivare nel capoluogo di provincia bisogna tornare indietro, domani decido, oggi voglio provare a salire fino alla vetta del Djbel Ayachi che con i suoi 3737 metri è la terza vetta del Marocco dopo il Toubkal e il Mgoun. Si esce di casa e le vie del paese sono invase da una grande mandria di mucche, muli e cavalli che sta scendendo verso valle, è una scena bellissima: la transumanza, la mandria scende veloce dentro una nuvola di polvere, è una macchia scura dai confini mutanti dimensionata da uomini e donne avvolte in vesti colorate che gli corrono tutt’intorno, garanti dell’incolumità dei coltivi del fondovalle. Correndo dietro la mandria mi ritrovo lontano dal paese, Serena mi raggiunge e cominciamo a salire sui fianchi del massiccio dell’Ayachi, siamo circondati dai muri a secco dei terrazzamenti dove il verde del grano, qui ancora basso, fa risaltare le fioriture dei numerosi meli. Camminiamo in direzione di una serie di cascatelle, man mano che si sale il pendio si fa più ripido e i pianelli assomigliano a tante piccole isole fortificate, tronchi scavati canalizzano l’acqua dal fosso ai coltivi. Raggiungiamo i salti d’acqua, c’è silenzio e profumo di menta e nipitella in questo Poio d’Atlas, sopra il liscione più grande un ampio getto d’acqua esce dalla roccia e si lancia in orizzontale per più di un metro, sopra solo e sassi e aridità, qui nasce il fiume.
Sopra la sorgente ci sono solo friabili sentierini arditi anche per le capre, saliamo dall’altro lato dove piccole piante abbarbicate di leccio e ginepro danno stabilità al terreno, in queste “macchie estreme” la gente viene a fare la legna, il paragone con la natura benevola dell’Elba è inevitabile, qui tutto deve essere conquistato con grande fatica. Anche qui ci sono tanti fossili, i più appariscenti sono i grandi amoniti, i più belli i trilobiti. La montagna è scura, ma attraversata da fasce di rocce chiare che disegnano degli ampi semicerchi somiglianti a schiene di giganteschi sauri dalle squame rettangolari, è molto ripido e si prende quota rapidamente, il terreno cambia forma, sfasciume, calcare e poi rocce scure disintegrate dal gelo. Serena preferisce fermarsi, guardando in basso, la grande pendenza e il paese, ora piccolo piccolo, mi ricordano le ascese allo Stromboli. Salgo verso una montagna che non vedo, incontrando la prima neve la vegetazione è praticamente scomparsa ma di tanto in tanto come per miracolo fra le rocce che si sono appena liberate dalla neve compaiono dei fiorellini viola, la pendenza elevata mi mette col “muso” sul monte mettendomi spesso faccia a faccia con favolosi fossili. Ora si vedono anche le montagne in direzione di Er Rachidia che erano nascoste dalla catena (con picchi superiori ai 3400 metri) opposta alla valle di Taarart, a est si vedono le montagne lontanissime, mi sembra di vedere anche il Toubkal ma non ne sono sicuro, la sensazione è di essere sul confine di una grande catena.
L’ultimo tratto è meno impegnativo, c’è tanta neve, ma è una specie di altopiano e si cammina bene, intorno nei canaloni ci sono grandi accumuli di neve. Arrivato sul culmine (mt 3737) mi godo il magnifico e ampio paesaggio a 360 gradi, c’è tanta neve e il sole inventa mille riflessi rendendo tutto fiabesco. L’affaccio verso nord regala dirupi e precipizi pronti ad inghiottire l’imprudenza e poi oltre si vede la grande pianura, il fiume Melloul, Midelt e il grande lago artificiale. A Ovest ancora montagne impegnative, le ultime dove c’è il passo che voglio valicare, lo vedo bene, non c’è molta neve, sarà impegnativo ma credo fattibile, mentre  il medio Atlas che prosegue a nord oltre la pianura di Midelt ha un aspetto più dolce. Mi faccio un po’ di foto in vetta, non è assolutamente una montagna impegnativa, ma salire sul culmine mi da sempre una grande soddisfazione, mi viene in mente  “La conquista del K2” un libro letto da militare durante le ronde notturne rubando le chiavi del comando (dove c’era la libreria del colonnello).
Inizio a scendere, la cosa più divertente è scivolare nel fango, in lontananza vedo Serena che è risalita un po’. La  discesa è interminabile, nonostante si scenda velocemente sembra più lunga della salita, dopo le rocce scure, il terreno morbido, poi le rocce a cerchi, ma il duuar sembra sempre alla stessa distanza, quando arriviamo ai campi coltivati la notte è alle porte, entriamo nel paese ormai tutto rintanato, a casa ci attende Baali che vuole essere fotografato sul suo  trattore, l’unico di Taarart. E’ già notte  quando il silenzio ascetico della valle viene scardinato dalla cantilena ritmata di una canzone  berbera, per un attimo penso a un altro lutto, ma per fortuna è una festa di fidanzamento. Sono ragazze che cantano e suonano tamburi fatti con contenitori  e bottiglie di plastica. I Berberi amano la musica, le loro litanie accompagnano tutti i momenti della giornata, quando si cammina spesso prima si sente il canto e poi si vedono le persone, cantano da soli e in compagnia spesso ripetendo all’infinito la stessa nenia. Come mi spiegava Mohamed di Zawyat Ahansal, i Berberi non amano la scrittura, la loro cultura è musicale e la storia è tramandata attraverso le canzoni. Rientriamo che è pronta la cena, facciamo il pieno di burro fuso e ciccia, domani sarà una giornata impegnativa e le donne di casa ci hanno preparato una cena energetica. Siamo nella grande sala che è anche la nostra camera, al muro sono inchiodate le immagini del re,  fratello del re e del figlio del re, Baali mi chiede chi è il re d’Italia, gli dico che in questo momento siamo senza ma fra qualche giorno anche l’Italia avrà una specie di re e mi addormento con l’immagine incubo delle case degli italiani con le pareti di sala adornate con le foto di tutta la famiglia Berlusconi.