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Partiamo di buon’ora, la padrona di casa ci raccomanda prudenza e i suoi attendenti non si capacitano sul perché voglia passare dalla montagna invece che dalla pista di Imilchil, ma tutto sommato sono molto gentili, ci preparano una grande colazione e ci regalano un pane caldo. Appena partiti un grande falco bianco volteggia sopra le nostre teste, è una giornata bellissima il sole e l’assenza di vento fanno salire rapidamente la temperatura.Stamani Tambone  non vuole andare, la prima ora è sempre una battaglia ma stavolta è proprio una guerra e spiegagli che l’omo è superiore alla bestia come mi dicevano i vecchi della Bonalaccia è una gran faticata. Dopo un paio di chilometri due donne che stanno lavorando nei campi mi invitano a compartire con loro la colazione, latte, pane e arance. Stanno zappando il terreno liberato dalla neve per prepararlo alla semina, nei campi si sono portati i figli più piccoli, la più piccina è una bambina di pochi mesi  tutta imbacuccata nelle coperte e posata sul terreno sotto lo guardo vigile della sorella che avrà al massimo due anni. Ripassiamo davanti al villaggio semi deserto, dove una donna  sta cocendo il pane, poi nel deserto appare in lontananza una bicicletta come un miraggio, che si rivela reale dopo qualche minuto, si ferma incuriosito a scambiare qualche parola sorpreso più di noi dell’incontro, poco prima del lago rincontro il bimbo di ieri  sera oggi in compagnia di altri due colleghi che mi mostrano alcuni fossili molto belli. Arrivati al lago vediamo nel fango le nostre impronte e  abbiamo un ulteriore conferma che non c’è né gite né villaggio di cui parlava la guida, sono segnalazioni che possono costare caro e mi confermano ancora una volta che  tutte le informazioni vanno sempre verificate . Il lago è bellissimo, azzurro come il cielo con il riflesso delle vette innevate nelle acque immobili, ci fermiamo un po’ per goderci lo scenario immersi in un silenzio assoluto. Ripartiti dopo poco incontriamo qualche casa, ma sembrano tutte deserte, disabitate, la  vegetazione è quasi assente. Continuiamo a salire, la pista è solo una piccola traccia che si mimetizza nel terreno cromaticamente uniforme, da una  casa isolata ci viene incontro  una donna con un bimbo sulle spalle, il piccolo è malato, ha la testa piena di bolle e pustole e il collo gonfio e pieno di ematomi, dagli occhi gonfi e lacrimosi si capisce che sta veramente male, la donna mi chiede qualcosa per curarlo una crema, delle pasticche, ma io non ho niente  e soprattutto non sono un medico, non so cosa fare gli dico di andare ad Imilchil dove c’è una specie di ospedale, mi dice che c’è gia stata e gli hanno dato una crema  ma non ha funzionato, la esorto a portare il bimbo giù ma non mi sembra di averla convinta. Il problema della sanità qui è enorme, i medici sono pochi e male attrezzati, non hanno i mezzi per spostarsi e anche se li avessero non possono lasciare scoperti i luoghi principali per andare a soccorrere le persone che vivono isolate, poi qui la gente è totalmente fatalista se uno si ammala e perché allah ha voluto così. La pista si divide in due, ma la mamma di prima ci insegue e ci indica la via per Midelt. Siamo dentro un grande deserto di pietra, a sinistra una montagna di rocce chiare a forma di semicerchio, non c’è pista, ma c’è un gregge e  il pastore mi indica la via. Siamo su un grande altopiano circondato da montagne, quasi senza rendermene conto mi trovo a camminare dentro una grande necropoli con centinaia di tombe, sicuramente non è un cimitero mussulmano anche perché nelle vicinanze non c’è nessun paese, tante tombe a cassetta e alcune a tumulo, molto simili a quelle del Piano alle Sughere ma in uno spazio molto più esteso che si confonde in una distesa di pietre squadrate che mi fa venire in mente “le Mure”. È un contesto  imponente e apocalittico che evoca epiche  battaglie fra grandi eserciti,  dimenticati  protagonisti di un passato mai scritto. Ci sono tanti fossili soprattutto Ammoniti, la pista indicatami segue il corso secco dell’oued, sale lenta e sinuosa, allora decido  di tagliare a sinistra salendo un monte di pietraie scure. Il percorso è ripido e instabile, Tambone scivola e si accascia sopra il tagrart, per fortuna  un pastore in alto mi vede e mi viene incontro  aiutandomi  a ricaricare e indicandoci  la via di Tirrhist. E’ quasi il tramonto, si sale sempre di più, il terreno ora è morbido, siamo sui tremila metri, c’è la neve intorno, in basso si vedono alcuni  pastori nomadi che si stanno spostando verso i rifugi per la notte. Nella valle è scesa l’ombra, in alto c’è ancora il sole, incontriamo un bimbo pastore quasi in vetta, siamo sul culmine, è una montagna che ci regala un panorama maestoso, uso spesso questo termine, ma qui è assolutamente appropriato. Il bimbo solitario intona un canto berbero sul tramonto, anche a me viene di stonare un canto di gioia per glorificare la bellezza del posto. Siamo sul passo alto, le montagne che sembravano lontanissime sono quasi tutte sotto di noi, a ovest il plateau e il lago di Isli, a levante, sotto di noi, il villaggio di Tirrhist che sembra un presepe con la campagna coltivata a terrazzi che evocano le risaie del sud-est asiatico, poi apparentemente infinita la catena del Medio Atlante fino alle vette lontane del Masker. Siamo su una montagna di fossili di conchiglie, se si arrivava una mezza milionata di anni fa c’era anche da rimedia’ un cacciucchino, invece ci tocca mangia’ scatolette di tonno. Appena sotto la vetta a est c’è un rifugio, altri ripari si trovano più  in basso, siamo a tremila metri e siamo già sottozero, metto Tambone a riparo nella “stalla” e poi si monta la tenda, ne blocco i bordi con lastre di fossili, e poi mi godo il panorama, lo scenario con le stelle che cominciano a illuminarsi e la neve che riflette le luce gelida della notte è di quelli indimenticabili.