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Bumm bumm chiamata bussata prima dell’alba, il capo famiglia ci sveglia, mi affaccio e vedo che il figlio più giovane ha dormito in giardino per fare la guardia a Tambone. Dopo le rituali abluzioni mattutine e la colazione usciamo con il nostro anziano tutore che con passo spedito avvolto nel suo jalabah marrone ci accompagna per tre chilometri fino al fiume, il confine della sua giurisdizione, mi indica il cammino con ampi cenni e si raccomanda di dormire solo nei villaggi grandi e di chiedere del cher (sindaco) appena arriviamo in paese.
Il oued è in gran parte secco, solo a tratti appare l’acqua e anche qui come nei fossi di Pomonte e Patresi proliferano i tubi neri di polietilene. Lascio il fiume ed inizio a salire un viottolo in mezzo ai campi dove stanno mietendo il grano con le falci, la roccia è chiara, prevalentemente calcare e ci sono numerose grotte, il viottolo si perde fra i campi e subito dopo ne ripartono altri che vanno in tutte le direzioni. Chiedo informazioni a un uomo che sta mietendo in compagnia di una splendida bimba dai boccoli biondi, qui non parlano come nell’Atlas però il sistema è sempre quello, la direzione verso il prossimo paese dai viottoli, trek (cammino) El Khemis el Brarha (paese) la godron (no asfalto), tutto accompagnato da ampi gesti lenti e la risposta con altrettanti gesti che poi sono insieme agli sguardi il vero linguaggio: la (no) la, ahh ! (lì va bene) e poi le solite domande palmo della mano destra rivolto verso l’alto fronte arricciata e occhio perplesso e stupito (oh che cazzo ci fai te qui?) dove hai dormito, è tuo il mulo, quanto l’hai pagato, dove vai ? che cerchi? mzien (bene), zwina (bello), bravo. Mi indica un viottolo che scende fra il grano dorato in direzione del fiume, è giovane ma il volto è segnato da rughe profonde e non ha quasi più denti, miete e lega le fascine di frumento, mentre la bimba raccoglie piantine di piselli selvatici e ne mangia i semi, i chicchi più ambiti dai bimbi di queste parti. Il viottolo cammina lungo il fiume dove ci sono tanti tamerici, ci sono anche tanti uccelli: garzette, cicogne, falchi, ma il protagonista volante è il grande avvoltoio bianco con un poderoso becco giallo che vola maestoso davanti a noi. Avanziamo nel terreno ciottoloso, dove c’è più acqua le donne lavano e riempiono i contenitori da portare a casa, un ragazzino che gioca a golf con una grande radice lanciando nell’acqua i sassi mi indica il cammino. Lasciato il greto ricominciamo a camminare fra i campi di grano, è un paesaggio tipicamente agricolo dominato da grano e olivi, Tambone non va nonostante le grandi mangiate di grano, è nervoso, irritato dal caldo e da mosche e tafani, provo a camminargli dietro senza tenerlo per la fune come fa la gente di qui, il risultato è che scappa in un campo di grano e inizia a razzia’, gli corro dietro ma va più di me, nel frattempo nei campi intorno il lavoro s’è fermato per lo spettacolo, lo prendo per la coda ma comincia a scalcia’ e per poco non mi leva, salta, il carico va giù rimanendo legato alla sella, il tonto si sente soffoca’ e si ferma. Alla fine del rodeo, la sella è ormai tutta sfatta e rimettere il tagrart è sempre un’ impresa. Il bestio sta crescendo, è diventato tutto corto, abbiamo cambiato il morso, riferato gli zoccoli e tagliato un pezzo di sella per risagomarla, ma ora dopo questa cura è completamente schiantata, però si so’ divertiti in tanti, sorrisi, risate e saluti che sbucano dalle spighe ci accompagnao alla ripartenza. Pensavamo di prendere qualcosa per mangiare nel primo douar ma in realtà sono solo poche case sparse e la gente è quasi tutta nei campi, Serena vede che in una casa stanno sfornando il pane da portare nei campi e si avvicina, le donne la chiamano al forno e gli fanno una grande festa, con baci e abbracci, mi godo la scena a distanza, in una casa di sole donne la mia presenza sarebbe inibente. Ci invitano a fermarci per il pranzo, come sempre nelle campagne, e prima del saluto le regalano un bel pane ciatto caldo e fragrante quanto mai gradito. La via lascia il fondovalle e inizia a salire, fa caldo per fortuna ogni tanto si inconta l’ombra degli olivi. Dai pendii ripidi scendono le melodie delle donne che mietendo cantano infiniti cori ritmati che trasudano di orgoglio e fatica, tanta fatica, ma positiva e allegra. Sulla via si incrociano asini con enomi carichi di grano tenuti fermi da un intreccio di corde che forma una rete a maglie larghe, è un lavoro che si ripete uguale chissà da quanto tempo, ma ogni tanto c’è un tocco di modernità naif come quando passa in sella a un ciuchino un omino col vestito tradizionale che sta chiamando dal telefonino (raccontando divertito dell’inusuale incontro: noi). Si apre un panorama maestoso verso nord, le grandi e ripide montagne del Rif. Pausa di un’ora sotto gli olivi per ripararsi dal sole e poi si sale in direzione di El Kemis, un paese che non esiste come capita spesso in Marocco, dove con il nome si indica una zona non ben definita, come se all’Elba ci fossero le indicazioni per Valdiruta, la Galea, Caubbio. Ci sono dei campi, El Kemis è al di qua del fosso El Brarha di là, in questa zona i coltivi sono così ripidi che la gente miete falciando con la schiena dritta, lavorano nei campi a “solana” perché a “ombrìa” qui in alto il grano è ancora verde. Proprio sul fosso, dove convergono le due valli c’è il piccolo perfabbricato della scuola che raccoglie i bimbi della zona, stanno facendo lezione, il maestro è un ragazzo arabo, che non mi sa dire niente a riguardo di dove siamo, l’unica cosa che capisco è che lui è qui perché ce l’hanno mandato, per fortuna che ci sono i contadini analfabeti, con loro ci si capisce sempre. Si sale ancora seguendo le indicazioni dei “fratelli berberi” con i loro guanti protettivi fatti di tronchetti canna tagliati a metà per difendere la mano che agguanta le spighe. Si sale fino al culmine di un colle tutto coltivato, qui il grano è ancora verde verde, davanti a noi una grande montagna grigia che ricorda nella forma il monte di San Bartolomeo sopra a Chiessi. Si scende fino ad arrivare al paese di El Chouyyab, c’è un piccolo emporio seminascosto da un enorme fico (almeno il doppio di quello dell’Enfola), è chiuso ma chiamano subito il proprietario che apre per noi, sembra che qui turisti (o viaggiatori che suona molto più bello e poetico) non ne hanno mai visti, in un attimo s’è fatta gente che è venuta a vedere “gli alieni”, sono tutti molto gentili soprattutto le persone anziane che sono sempre prodighe di consigli e raccomandazioni, “fransè fransè” dico che sono italiano e divento fransè italiano, perché nei posti “veri” fransè sta per europeo, è come continentale, uno prima è continentale poi po’ esse’ di Piombino, di Milano, di Bruxelles…. Riroviamo una strada, a destra per Taza, a sinistra per Kef El Ghar la nostra meta. La strada è piatta e cammina lungo il fiume circondata da grandi alberi, chiedo delle grotte, qui in zona ci dovrebbero essere delle grandi grotte, le informazioni sono diseguali ma la direzione è quella giusta, la zona è ricca di grotte e quando ricominciamo a salire sembra di vederne dappertutto. Poi si presenta in lontananza una montagna spaccata, con delle imponenti pareti rosse, si respira che è un posto speciale, un omo grosso su un ciuco piccolino mi conferma che le grotte sono lì. Non rispetto le consegne del chir, invece di andare verso il villaggio di Kef El Ghar mi dirigo verso la montagna dalle rocce rosse passando da un sentiero tra campi di grano e olivi. Ci sono case sparse e un ingegnoso ed articolato sistema di canali per l’irrigazione, è ormai sera, ci sentiamo gli sguardi di tutti adosso, ma è impossibile incrociare sguardi, solo i bimbi come sempre curiosi cercano con gli occhi ma sempre a distanza. Arriviamo alla montagna spaccata, sotto scorre un fiume e sopra c’è l’ingresso di una grande grotta dove volteggiano eleganti e tetri decine di corvi, è ormai quasi buio, e c’è aria di temporale ora bisogna cercare da dormire, da una casa risuona altissima la musica di una radio, sembra un richiamo, mi avvicino e il padrone che sembrava in attesa ci accoglie con entusiasmo, arrivano anche i figli e in un attimo ci ritroviamo comodamente distesi nel salone mangiando pane, burro e marmellata e sorseggiando thè. Inizia a piovere forte, come sempre siamo fortunati, siamo ospiti di una famiglia generosa e simpatica, Hafid il babbo è entusiasta della nostra presenza vuole sapere del viaggio e delle differenze fra la gente incontrata in Marocco, ha quaranticinque anni e è un tipo tutto muscoli e nervi come sempre si passa la serata dialogando con un linguaggio inventato e facendo foto. Domani andremo a vedere la grande grotta guidati dai ragazzi grandi di casa.