Niente è più tremendo è un male assordante |
|
Monthgennaio 2009
|
{youtube}RbfqI9ua1Mw{/youtube} La duna più alta |
|
{youtube}V8ZEqwXltk8{/youtube} {youtube}6VF2ossI1gM{/youtube} Smisurato Murzuq Mi sveglio nel freddo asciutto della duna, nel cielo pallido di Ponente la luna galleggia come una medusa di ghiaccio. Stamani la potenza vermiglia dell’alba è smorzata da un tendaggio di nuvole bigotte e irradia insolitamente pallida la smisurata distesa di sinuosità accavallate. |
|
{youtube}ZIsv218ptAs{/youtube} Il cacciucco del deserto |
|
{youtube}cnkdCW2tsrU{/youtube} Acacus sinfonico
|
|
{youtube}yE7C092M9xg{/youtube} Il piccolo grande arco, il serpente e i Priapo del deserto |
|
{youtube}X14_FTJaKKI{/youtube} {youtube}mJ7cJdMFkL8{/youtube} Dune rosse e Luna metallo |
![]() Kaf Ejoul
![]() Ghat
|
La montagna dei fantasmi e il pianeta Acacus Mi sveglio con il primo chiarore, è freddo ma secco il telo della tenda è asciutto, la sabbia è fredda ma già spolvera sotto i piedi, salgo sulle prime dune per fotografare il sole che sorge da dietro l’Acacus, i corvi che nei posti più belli non mancano mai mi osservano dalla duna più alta. Arriva il sole e la sterminata e informe distesa di sabbia prende immediatamente forma tingendosi di rosso e di arancio, è un mare di onde giganti e immobile che si perde infinito a ovest in territorio algerino. Ritorniamo sulla pista principale per raggiungere Ghat, lentamene davanti a noi si inizia a definire la sagoma scura di Kaf Ejoul la montagna dei fantasmi, man mano che ci avviciniamo la forma diventa sempre più complessa e somigliante a una gigantesca cattedrale gotica, poi la calura che comincia a far salire la foschia aggiunge un ulteriore tocco mistico ai picchi erosi. Incontriamo un palmeto e una zona con un po’ di vegetazione che cresce grazie ai “foggara” canali sotterranei scavati dai Garamanti per portare in superficie le acque del sottosuolo, che mi riportano alla mente i canali nel deserto peruviano scavati dai Nazca che costruivano acquedotti sotterranei portando l’acqua originata dai nevai dei picchi andini nel deserto e poi fino al mare. Ci fermiamo vicino a una carcassa di dromedario, per i Tuareg Kaf Ejoul è un posto da evitare, è il luogo dove si danno appuntamento i “Djinn” gli spiriti immortali dalle sembianze umane che fra i picchi arcigni della montagna si ritrovano tutte le notti proveniendo da luoghi e epoche lontane. I “Djinn” si dice che abbiano barba e capelli rossi (questa credenza ha portato i tuareg per secoli ad evitare il contatto con i rossicci europei) nella notte si sente il suono dei tamburi e il canto ammaliante di donne che festeggiano, ma nessuno di quelli che si è avicinato è mai tornato indietro, chiedo a Yaya e Haroun di raccontarmi della montagna, non si sbilanciano però assolutamente non ci vogliono andare e non vogliono nemmeno che ci si vada noi, Yaya racconta “una volta io sentito musica la notte e andato via, io paura non sai cosa c’è, ma c’è qualcosa tutti lo sanno e nessuno va”. Yaya assolutamente non ne vuole sapere, ma Haroun che è giovane e ha gli occhi scintillanti sarebbe tentato di salire con me però il capo è Yaya e comunque va bene così, la carcassa di dromedario a bordo strada sembra ammonire sul non forzare le credenze. Il cielo diventa sempre più tremolante e vaporoso e le figure disegnate dall’erosione che sui picchi scuri di Kaf Ejoul sembrano acquistare movimento, è un paesaggio maestoso e inquietante dove non riesco a percepire dimensioni e distanze, e il reale si miscela con il fantastico è difficile mantere la mente nei binari della razionalità e se nella montagna delle adunanze dei Djinn si nascondesse una porta spazio temporale? Un passaggio verso la quarta dimensione e i misteriosi e terribili spettri dalle chiome rosse potrebbero essere eruditi viaggiatori nel tempo costretti a custodire con spietato rigore questo immane potere troppo grande per essere divulgato alla stupidità umana. Il rettilineo si dissolve nell’ennesimo miraggio, ma questa volte non si perde nell’aridità, cresce in una grande macchia verde, è un oasi siamo arrivati a Ghat. Ghat è un villaggio di confine siamo sulla frontiera Algerina e a un centinaio di chilometri dalla frontiera del Niger, attualmente con Ubari è il più importante insediamento fisso dei Tuareg. Ghat fu fondata dai Garamanti era una delle oasi fortificate più importanti del loro regno perché proteggeva il fianco meridionale di Garama (la Capitale) la medina attuale risale in gran parte al 1200 ma qui c’era un insediamento importante gia nel primo secolo avanti cristo. Al tempo delle grandi carovane transahariane era una città ricca e importante, anche se non come Ghadames, in posizione strategica per raggiungere le oasi del Niger e poi proseguire nel Mali per la mitica Timbouctu, Ghat si avvaleva della protezione delle le tribù guerriere tuareg alle quali i mercanti e i carovanieri pagavano il pizzo per garantire l’incolumità dei convogli. L’accordo funzionava bene tanto che la zona “protetta” fra Ghat e il Niger era chiamata dai tuareg “terra di pace”. Gli uomini blu erano i caschi blu del tempo, sembra un paragone irriverente e forse offensivo ma le camionette armate dei caschi blu visti lo scorso anno al confine tra il Marocco e la Mauritania a supervisionare sulla questione dei Saharawi, mi sembravano semplicemente corpi di militari professionisti (volontari è più elegante di mercenari ma secondo me anche più improprio) ingaggiati per difendere la pace. Ghat era governata da un sultano la cui discendenza si tramandava come da tradizione tuareg da linea femminile, il sultanato mantenne una grande autonomia che gli permise di commerciare senza problemi con gli stati vicini, questa situazione di “stabilità” si interruppe nel milleottocentosettantacinque quando i Turchi occuparono il Sahara e l’indipendenza di Ghat finì, fatto che unito all’abolizione della schiavitù avvenuta pochi anni prima ne sancì il declino. L’insediamento fu poi amministrato dagli italiani durante il periodo coloniale e subito dopo dai francesi. Arrivati alla porta della medina Yaya ci lascia e va a fare benzina, lui qui non sarebbe venuto, per lui non ne valeva la pena di allugare di duecentocinquanta chilometri per venire qui e poi i tipi che gestiscono la medina non gli stanno simpatici “non c’è niente da vedere solo souvenir per turisti”. Ormai il sole è alto e abbagliante avvolge tutto, caldo secco, polvere, silenzio, mosche e contrasti netti di colore ma su tutto una luce forte acceccante che ti sfida ad attraversarla, è la luce dell’Africa. All’ombra di una tettoia di foglie di palme un gruppetto di uomini attende i visitatori,ci osservano in silenzio e ci offrono un the, si vede che non sono arabi, si paga il biglietto e il custode della medina ci indica la via. La porta d’ingresso è molto piccola è un arco che si apre nella muratura di paglia e fango, i vicoli dal fondo di sabbia sono stretti e ci proteggono con la loro ombra, la maggior parte delle case sono abbandonate da quando gli abitanti originari di Ghat si sono trasferiti nel nuovo insediamento poco fuori le mura, il solito processo di modernizzazione voluto da Gheddafi. Solo qualcuno è rimasto perché non ha voluto rinunciare al confortevole fresco delle case della medina, oggi però specialmente nella parte bassa della città vecchia ci sono diverse case abitate che sono state occupate da immigrati provenienti dal Niger. Una rampa di scale porta a una piazza rialzata, questo era il cuore della città dove si radunava la gente e venivano pronunciati i discorsi publici. Una scalinata ci porta sulla roccia che domina la medina dove si trova il forte italiano, rispetto alla medina la roccaforte in pietra ha un aspetto imponente con le massicce torri rotonde che ne potenziano le difese sui fianchi, dentro è una caserma, con questo clima secco tutto si conserva immutato e anche il forte sembra essere appena stato abbandonato, dalle sue mura si vede tutta la medina, il souk e anche l’oasi e il villaggio moderno. Scendendo incontriamo un anziano “buongiorno italiano” quando era un bimbo qui c’erano i soldati italiani e lui ha imparato un po’ di italiano, mi dice che qui gli italiani si sono comportati bene a differenza dei francesi che sono arrivati dopo, ha rughe profonde e occhi larghi e sognanti mi piacerebbe fargli un ritratto ma è sempre imbarazzante fare le foto alle persone con cui scambi emozioni, a volte sembra di sminuire il valore degli sguardi e delle parole. Passiamo davanti alla casa di un gigante arrivato dal Niger e poi usciamo dalla città fortificata. Yaya ci sta aspettando, partiamo subito non ha ancora fatto benzina perché la fila era troppo grande, per quanto possa sembrare strano fare benzina da queste parti è complicato perché i distributori sono pochi e non sempre c’è il carburante e spesso la fila è composta da decine di macchine e durante l’attesa il distributore diventa una specie di piazza. Fatta benzina si torna verso Nord, pranzo sotto le acacie, poi sosta a Al-Aweinat per comprare l’olio per il motore del vecchio Land Cruiser e si parte verso il mitico deserto delle pitture rupesrti. Insieme al Murzuq e al deserto bianco, l’Acacus era uno dei luoghi del Sahara che sognavo di vedere quando all’Elba mi immaginavo e sbozzavo il percorso del giro del mondo. Siamo dentro, è come essere in un altro pianeta, racchiuso fra imponenti montagne nere l’Acacus è diverso da tutto quello visto prima, un deserto di sabbia dorata e basalti scuri erosi nelle forme più incredibili che si perdono in un paesaggio indefinito, rarefatto e nebuloso, tutto sembra evaporare per il gran caldo. Ci sono delle impronte di fuoristrada, ma Yaya è schivo e prende un'altra direzione e questo mi piace, la magia di un luogo è fatta anche dalle persone e la fortuna ha voluto che l’Acucus lo vedessimo insieme a Yaya il silenzioso. Attraversiamo uno dei tanti Wadi della zona, il calore del sole nebulizza i contorni delle mille forme cangianti che ci scorrono intorno, un mondo di roccia nera e sabbia ocra, i basalti che galleggiano nel riverbero della sabbia come piramidi e isole, il “pianeta acacus” è un “inferno paradiso”. La mente non ce la fa a stare ai fatti, troppi stimoli di figure indefinibili e mutevoli e in un caleidoscopio di suggestioni in controluce diventano faraoni, guerrieri, odalische, sceicchi e draghi. Attraversiamo un mare di piccole dune compatte e poi ci fermiamo ad ammirare il grande dito di roccia, vediamo anche le prime incisioni, sono iscrizioni in carattere Tifinagt la lingua dei tuareg (i cui caratteri sono molto simili al Tamazigh) e dovrebbero risalire a tremila anni fa. L’Acacus è il territorio Tuareg per eccelenza, vivono qui da sempre con i loro animali spostandosi costantemente per gestire in maniera oculata le poche risorse di acqua e vegetazione che questo ambiente offre, oggi si sono quasi tutti trasferiti a Ghat diventando stanziali ma qualche famiglia continua a vivere qui nella maniera tradizionale, schivi e refrattari ai cambiamenti. Vediamo le case di un nucleo familiare, sono capanne di paglia appoggiate sotto una grande parete scura, mi immaginavo di trovarle ai margini della foresta ma non nel deserto le capanne di paglia, ma come dice Yaya “c’è acqua, biggolo bozzo per gente di acacus e erba basta per fai casa” gli chiedo se possiamo andare a vedere ma mi dice che “loro piace tranquilli” “tuareg no arab” aggiunge Haroun e di nuovo Yaya a chiudere “IMASHAGHEN” altro modo per definire i tuareg che significa nobili e liberi a significare che se uno sceglie questo stile di vita è per avere la tranquillità e la libertà che svanirebbero avendo intorno estranei in cerca di souvenir. In alcuni punti c’è un po’ di vegetazione, acacie e strani alberi che fanno un frutto tondo tipo una zucca, è un albero che non ha nome, non se lo merita perché non è buono “nemmeno per cammello”. La giornata è volata andiamo verso le montagne più alte e montiamo il campo in un posto fantastico. Salgo da una duna appoggiata al monte per raggiungere un picco che regala un panorama a cui nessun superlativo può rendere giustizia, il sole sta ponendo mentre sale la luna piena, intorno a me un mare di forme e colori, isole e piramidi nere e perfette si ergono dal lago di sabbia mentre il disco gigante dell’astro infuocato si cala dietro il crinale nero che chiude un orizzonte circolare. Devo cambiare l’uso degli aggettivi, da oggi sarò molto più parco nell’uso dei superlativi, ma non per questo tramonto bellissimo. Serata intorno al fuoco illuminati dalla luna tonda fra racconti e indovinelli spesso disegnati nella sabbia, è una notte di stelle cadenti anche loro qui sembrano più grandi. Prima di entrare in tenda mi godo il privilegio immenso di una camminata notturna nelle sabbie del Pianeta Acacus. |
|
Territorio Tuareg Stamattina fa prorio freddo e si sta bene imbacuccati, c’è movimento intorno si sente rumore dei fuoristrada che si stanno preparando a partire. Alle otto arriva Yaya, la nostra guida, insieme ad Haroun il suo aiutante, mi fanno subito una buona impressione sono gentili, hanno occhi grandi e rilassati e poi il paragone con silenzio è impietoso, se fino ad oggi l’accompagnatore è stato un obbligo imposto, da qui e per i prossimi giorni dentro il deserto un mezzo e un accompagnatore esperto sono indispensabili. Carichiamo i nostri zaini nel fuoristrada, è un vecchio Land Cruiser a balestre di una ventina d’anni fa, ma è attrezzato bene e ha le gomme nuove. Si parte, la macchina è stracarica di viveri, a bordo c’è tutto un altro clima non è che si parla tanto, in relatà la maggior parte del tempo è passata in assoluto silenzio, ma non si respira nessuna ostilità e poi questo è un luogo di silenzio. Sia Yaya che Haroun sono due Tuareg e vivono a Ubari, Yaya parla un po’ di italiano, lo ha imparato accompagnando i turisti e i ricercatori nel deserto dell’Acacus di cui è un grande conoscitore, Haroun è il cuciniere originario del Niger e questo per noi è un vantaggio perché parla francese, fra di loro parlano Tamashek la lingua dei Tuareg che è molto simile al Tamazigh dell’Atlas, del resto la tribù Tuareg ha origine dall’etnia Amazigh, il suono è simile e alcune parole tipo “la bas” (com’è?) e “adrar” (montagna) sono le stesse. Si procede sulla strada asfaltata in direzione sud-ovest, dopo un primo tratto di sola aridità entriamo in una larga gola delimitata a nord dalle dune sabbiose del deserto di Ubari e a sud dalla catena montuosa dello Msak Settafet, siamo nel Wadi al-Hayat che in Tamashek significa “valle del valore della vita”, è un paesaggio arido e monotono, almeno per i nostri parametri, in realtà questa lunga valle è la zona più fertile del Fezzan grazie al sottosuolo ricco di acqua. Ogni tanto si vede l’acqua uscire dai grandi tubi dei pozzi e tutt’intorno macchie di verde intenso e palme da dattero. Nella valle ci sono tre insediamenti, Takerbiba, Germa e Ubari che è il principale insediamento dove risiede la maggior parte dei Tuareg della Libia, i Tuareg solo negli ultimi anni si sono stabiliti in fissa dimora, fino a pochi decenni fa vivevano in maniera nomade abitando nelle tende. A Ubari facciamo la prima sosta, ci fermiamo per timbrare i passaporti, questa è una regione di frontiera e i controlli sono molto rigidi anche perché i rapporti con la vicina Algeria e il Niger sono sempre delicati. Approfitto della sosta per prendere un caffè, è un ambiente pigramente rilassato mi sento un nano in mezzo a tutti questi giganti col camicione lungo e i grandi turbanti, proprio al contrario di come mi sentivo sull’Atlas dove erano tutti molto più piccoli di me. Sbrigate le pratiche burocratiche riprendiamo la via, la strada è un infinito rettilineo che sfuma nell’orizzonte, il caldo crea un riverbero cosi’ forte che il paesaggio sembra galleggiare dentro una nuvola di gas, è difficile tenere gli occhi aperti in questo panorama accecante e indefinito. Dopo un paio d’ore incrociamo qualche pianta di acacia e facciamo una sosta sfruttando la loro ombra, sono piante arcigne che hanno imparato a vivere in questo ambiente estremo e per difendersi sono dotate di grandi spine. In un ambiente totalmente diverso da dove l’abbiamo lasciato ritroviamo il rito del the, osservo Yaya mentre sotto le acacie raccoglie piccoli pezzetti di legna secca, è una figura elegante, lungo lungo con il volto e la testa avvolti in un turbante bianco lungo svariati metri che forma un groviglio di stoffa che lascia vedere solo il naso e gli occhi, come da tradizione Tuareg non mostra mai il volto quando mangia e solo dopo ci chiama per offrirci il the fatto nella piccola teiera messa a bollire su un focolare minimale alimentato da pochi stecchi secchi. La luce è sempre più accecante, la monocromia nebbiosa del paesaggio è interrotta solo dalle fiamme di alcuni pozzi di petrolio vicini alla strada. Arriviamo a Al Aweinat piccolo villaggio che è anche una delle porte per il deserto dell’Acacus, Yaya vorrebbe entrare subito ma in questo modo salteremo Ghat che è un posto che voglio vedere, quindi proseguiamo verso sud in maniera da poter essere a Ghat domattina. Finalmente si lascia la striscia asfaltata e entriamo nel deserto, prima compatto e con qualche acacia in qua e là e poi solo di sabbia, avanziamo per qualche chilometro e poi ci fermiamo sotto la grande duna di Tansen. Tutto quello che finora abbiamo chiamato con il nome di duna al confronto sembra un semplice cumulo di sabbia, secondo Yaya questa duna non è niente di che rispetto a quello che vedremo nel Murzuq e nell’Ubari. Il sole scende veloce e i colori cambiano in un attimo, saliamo sempre più in alto osservando le dune che si perdono infinite verso sud nel vicino territorio algerino, i confini hanno poco senso ovunque ma meno che mai in queste regioni di sabbia. Appena dopo il tramonto il colore delle dune diventa incredibile e indefinibile, tra l’arancio e l’ocra e il gioco dei chiaroscuri rende cangianti i colori e le forme, dall’altro lato una luna sempre più grande sta salendo dietro la catena scura dell’Acacus che ora è ben definita, rendendo tutto ancora più bello. Dopo aver montato la tenda ceniamo intorno al fuoco, la notte è illuminata dalla luna quasi piena andiamo a fare una cammina notturna avvolti in uno spettacolo che non si puo’ descrivere. L’aria è fredda ma camminando si sta benissimo anche perché c’è totale assenza di umidità, quando si trorna Yaya e Haroun stanno già dormendo sotto le coperte vicine al fuoco. |
|
Sebha e le gigantografie di Gheddafi Il sergente silenzio è fuori dal cancello che aspetta, carichiamo gli zaini e inaspettatamente partenza con sgommata e media di centoquaranta. Dopo una mezz’ora ci fermiamo per un caffè, il bar è gestito da un marocchino che ci parla male del Marocco e bene della Libia, lui ha sposato una libica e ha risolto il problema mi spiega “qui c’è il petrolio e lo stato da a tutti una casa e una macchina”. Fa ancora freddo, il deserto al mattino sembra circondato da ghiacciai, a poca distanza dalla strada stanno costruendo un grande acquedotto, è un cantiere lungo diversi chilometri dove vengono interrati dei grandi tubi, i mezzi sono moderni e tutti nuovi, gli scavatori in fila sembrano tanti dinosauri in marcia. Tiriamo dritto fino a Ash-Shwareef dove si fa sosta per mangiare chawarma di pollo, anche qui il venditore non è libico ma tunisino e ci tiene a dirlo. Ora si punta a sud il sole è diventato caldo e accecante, davanti a noi il grande lago specchiato dei miraggi non si fa mai raggiungere, sullo sfondo le montagne nere si stagliano nette in un paesaggio indefinito di aridità e miraggi e sembrano nascondere dei misteri, ogni tanto un branco di dromedari attraversa la strada, pascolano tranquilli mangiando apparentemente polvere, così come le capre che si vedono in lontananza intorno alle tende dei nomadi. Le tende sono le stesse dei pastori nomadi dall’Atlas ma intorno ci sono pick up e fuoristrada, in Libia anche i nomadi non sembrano passarsela male. La strada scorre dritta sempre più piccola fino a perdersi in un orizzonte tremolante, ancora cantieri nel deserto questa volta per costruire una strada, rimango colpito dagli operai tutti ben attrezzati con guanti e maschere antipolvere, è un'altra Africa rispetto al Marocco e anche alla Tunisia. Incontriamo le prime dune, il deserto sabbioso è un mondo a parte ne terra ne mare, le dune stanno avanzando sulla strada e il vento disegna forme gangianti di sabbia gialla sul nero dell’asfalto, in lontananza la macchia verde di una grande oasi, siamo arrivati a Sebha. Questa città è diventata la più importante fra quelle del sahara libico, è la nuova Ghadames crocevia dei commerci e punto di sosta per la gente che risale il deserto dal Ciad per andare verso la costa in cerca di fortuna. E’ una città estesa e moderna con grandi palazzi, imponenti edifici pubblici e prati verdi, un po’ da tutte le parti ci sono gigantografie di Gheddafi che declamano la grande Libia alla testa degli stati uniti d’Africa, o il deserto trasformato in distesa verde, altre la ricorrenza del trentanovesimo anno della rivoluzione. Il sergente silenzio ci accompagna in un bel campeggio a qualche chilometro dal centro dove per cinque dinari ci si puo’ accampare. In serata un signore gentile ci accompagna in centro, solita sosta a internet che pero’ produce poco per la difficoltà di connessione. La gente è gentile e incuriosita non sono abituati a vedere europei che non sono ne turisti organizzati ne qui per affari, è una città in grande espansione e si vede che la gente sta bene dai negozi ben forniti e dalle tante attività. Come da accordo ci ritroviamo con il nostro amico e rientriamo al campeggio dove nel frattempo sono arrivati i turisti che attendevano ma non li vediamo perché sono già andati tutti a dormire. Ci trasferiamo al ristorante dove ci sono le prese della corrente sfruttando l’ospitalità dei ragazzi che stanno preparando il mangiare per domani. |
© 2025 Elba e Umberto