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Ha smesso di piovere, ma il cielo è grigio e bianco, Segagnana questa mattina è in forma, si avanza in mezzo ai campi coltivati e ogni tanto si incontrano camion e furgoni carichi di persone e animali. Dopo circa sei chilometri la strada inizia a scendere fra l’argilla rossa dove spiccano tanti olivi, alcuni molto vecchi con i tronchi bellissimi. Arriviamo al paese di Taghbalout dove dovremmo trovare tante impronte di dinosauro, leghiamo Segagnana a un palo e iniziamo la ricerca. La roccia rossa come la radiolarite di Monte Grosso è in realtà argilla compressa dove sono rimaste impresse le impronte dei giganti del passato. Le più spettacolari sono quelle dei veloci carnivori a tre e due dita, grandi dai dieci ai quaranta centimetri, mentre quelle degli erbivori, rotonde e molto più grandi, si confondono nella conformazione della roccia. I piani inclinati delle rocce argillose incontrano un torrente dove alcune ragazze stanno lavando, ma vedendomi arrivare scappano per paura di essere fotografate.
Mentre ritorno verso la ciuca un gruppetto di bimbi appena usciti da scuola mi viene incontro, uno di loro con la faccia da primo della classe mi racconta dei dinosauri e mi fa vedere delle impronte che non avevo visto. Serena mi chiama, Segagnana si è buttata in terra con tutto il carico e non vuole sapere di alzarsi, proviamo a tirarla su con la shuarì in groppa, ma non c’è niente da fare, bisogna sciogliere tutto, scaricare e farla rialzare praticamente di forza. Una volta pronti si riparte, attraversiamo un paese molto suggestivo, dove ci sono tante persone sedute a parlare sulle grandi spianate di roccia rossa fra le case, cerchiamo invano un po’ di cibo per l’asina. Proseguendo ci troviamo a camminare insieme a un bimbo che sta portando al pascolo una decina di pecore e un altro ragazzino con un grande asino che ci propone uno scambio alla pari: il suo asino per Segagnana. Di primo impatto sembrerebbe un affare l’asino è grande e robusto, ha una bella sella, una grande shuarì e un bel morso di cuoio, ma guardandolo meglio è così vecchio da essere sdentato. Comunque Abdul si dimostra simpatico e gentile, ci procura il mangiare per Segagnana ritornando in paese a riempire la nostra balla e poi ci propone di andare a dormire da lui dicendo che ha due case, una dove vivono lui e la sorella perché i genitori sono morti e un’altra. Ci propone anche un tajine preparato dalla sorella, però in cambio vuole un passaporto per l’Italia dove vuole andare per fare il muratore, guadagnare tanti soldi e tornare in Marocco per farsi la casa grande. Serena gli chiede perché tutti i marocchini vogliono venire in Italia a lavorare e non in Francia o Spagna e lui risponde secco: “perché lì la polizia ti rimanda indietro!” con un po’ di rimpianto decido di proseguire, sarebbe stata sicuramente una serata interessante, ma è ancora presto, la strada è tanta e il Mediterraneo è lontano. Attraversiamo un piccolo villaggio, poi guadiamo un torrente e torniamo a salire, l’ambiente è sempre più selvaggio e gli olivi sono sostituiti dai ginepri. Anche noi dobbiamo mangiare, in alto sulla strada c’è un piccolo villaggio con le solite case di pietra e fango, ma con un piccolo minareto rosso e bianco.
Vado su cercando qualcosa da mangiare, prima nella direzione della moschea dove chiedo a un anziano dove posso trovare del cibo, ma mi fa capire che lì cibo non ce n’è, mentre mi sposto verso l’altro lato del villaggio rimango colpito dai canti che provengono dalla piccola moschea, sembrano quasi dei suoni tribali e prima d’ora non avevo sentito mai niente di simile. Sopra un tetto ci sono delle specie di piccole tende fatte con legni piegati che sembrano i tipì degli indiani, ma in realtà sono “le abitazioni” di polli e tacchini. Mi sposto verso una specie d’aia dove ci sono due donne sedute su due balle mezze vuote, quando mi avvicino, forse perché ho la macchina fotografica al collo, fanno per andare via, chiedo a gesti qualcosa da mangiare, allora una torna indietro e mi dice di aspettare. È molto anziana, ha due fregi sulla fronte e sul mento e i palmi delle mani completamente tatuati, ma la cosa che colpisce di più sono gli occhi celesti. Dopo poco vengono due donne da due case diverse, una mi porta un pane, l’altra un pane con una ciotolina d’olio, le ringrazio, gli offro qualche dirham per sdebitarmi, ma loro dicono di no, devo insistere per lasciargli qualcosa. Scendendo verso la strada dove Serena mi sta aspettando con l’asina, da una casa esce una ragazza molto giovane, avrà al massimo diciottanni, con un volto bellissimo e un bimbo in grembo tutto fasciato di bianco.
Col pane nello zaino cominciamo a risalire una strada che sembra scollinare su un picco a un paio di chilometri, ma in realtà arrivati lì sale ancora molto. In cima al passo, dove il paesaggio comincia essere da vera montagna, scendiamo in una valle verde alla fine della quale vediamo un altro villaggio. Facciamo un tratto di strada con un gregge di pecore e le sue pastorelle che sono affascinate da Serena, penso che sia la prima volta che vedono un’europea con un’asina. Attraversiamo il villaggio, ogni volta la sensazione di isolamento è sempre maggiore, camminiamo ancora un’ora poi ci spostiamo in un bel pianoro e montiamo la tenda.