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Il Libro Verde e la Medina Africana
Il venerdì è giorno di festa perché dedicato ad Allah, sabato le sedi diplomatiche sono chiuse, quindi per andare al consolato Egizio per i ivisti bisogna attendere domenica, oggi siamo liberi di muoverci senza “scorta” per Tripoli. Ci spostiamo verso la Piazza Verde che dovrebbe essere il cuore della Tripoli rivoluzionaria, ma si rivela anonima e deludente, un gran parcheggio con una larga via che gli gira intorno. Guardando il mare sul lato sinistro c’è il castello, il monumento più bello e imponente della città, fino agli anni settanta il castello e la piazza davano sul mare ma poi sono stati bonificati cinquecento metri di mare e ora prima di vedere le acque del mediterraneo bisogna attraversare uno stradone a quattro corsie e una serie di giardini. Sicuramente il castello con i bastioni affacciati sul mare doveva fare tutto un altro impatto, come del resto anche Portoferraio Medicea avrebbe tutt’altro fascino se fosse ancora separata dal resto dell’Isola dal fossato.
Nella fortezza che in realtà è una cittadella fortificata si trova il famoso Museo della Jamahiriya, considerato uno dei più belli del mondo, entro per assicurarmi che anche domani sia aperto e mi compro la ventiquattresima ristampa del Libro Verde in Italiano, un libricino con la costola rigida  dove è racchiuso il Gheddafi pensiero. Moammar El Gheddafi ha concepito il suo capolavoro una trentina di anni fa a seguito di un meditativo soggiorno nel deserto durato più mesi. Nel Libro Verde, che in pratica è la costituzione della Libia, è enunciata “la terza teoria universale” “la soluzione definitiva allo strumento di Governo per il mondo intero”. Per quanto grottesco secondo me ha degli spunti geniali e comunque la sua applicazione, vista da dentro la qualità della vita della gente nella dittatura socialista di Gheddafi, a me sembra decisamente migliore rispetto alle dittature filo Americane viste in Marocco e Tunisia, bisogna anche ammettere che governare una nazione con sette miloni di abitanti distribuiti sopra una steminata cisterna di petrolio agevola la gestione dei problemi. Dopo la “rivoluzionaria” lettura, andiamo a fare un giro nella medina, che non ha niente a che vedere con il fascino delle medine marocchine di Fes o Rabat, ma è comunque la parte più interessante di Tripoli. Le mura delle case e delle moschee sono le classiche di fango ma rivestite da uno spesso strato di calce bianca che le danno un’impronta tipicamente mediterranea, ogni tanto dai vicoli sbuca qualche terrazzino che insieme alle persiane ci ricordano il periodo italiano di Tripoli.
Le Mura della Medina si basano sulle antiche fondamenta di Oea la grande città Romana che insieme a Sabratha e Leptis Magna formava la Tripolis, da cui ha origine il nome attuale, la posizione strategica di porto di collegamento fra l’Africa e l’Europa ne ha disegnato una storia tumultuosa e le sue mura hanno visto Bizantini, Normanni, Arabi, Spagnoli succedersi al suo controllo fino all’invasione turca del millecinquecentocinquantuno che in pratica mantennero il controllo fino all’arrivo delle truppe coloniali italiane nel millenovecentoundici. Camminare dentro la medina è come fare un viaggio nell’Africa interna, i Libici ormai non ci vivono più si sono trasferiti nella città nuova e qui ci vive e ci lavora solo gente proveniente dall’Africa nera, soprattutto dal Ciad, dal Niger e dal Mali, rendendo il clima gioioso per il modo più colorato di vestire e soprattutto per la musica vitale che si propaga nei vicoli, molto più ritmata ed energica rispetto alle alienanti litanie arabe. I vicoli brulicano di attività, ci sono tantissimi barbieri e tanti sarti che Serena dice usano anche delle buone macchine per cucire.
Tornati verso la città nuova camminiamo lungo il mare fra fontane, giardini e bar di lusso super recintati, frequentati da gente stile milano da bere che mai mi sarei immaginato di trovare a Tripoli.
In poche centinaia di metri si è passati dalla medina di fango al bar con le guardie del corpo, questo però nel Libro Verde non c’era scritto.