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Durante la notte il freddo si è fatto sentire, sono ancora rintanato nel sacco a pelo quando sento il passo dei bimbi intorno alla tenda, apriamo e ci troviamo davanti le due sorelle di ieri e il fratello più piccolo che ci hanno portato caffelatte olio e pane. La loro casa non è distante, sarà circa a mezzo chilometro, ma il dislivello è notevole, saranno quasi cento metri molto ripidi tra cespugli di ginepro e leccio. Scaldati dal latte cominciamo a prepararci per la partenza, per prima cosa sciolgo le zampe all’asina e gli do un po’ di fieno, poi inizio a smontare la tenda mentre Serena prepara gli zaini. Dopo una mezz’oretta dalla prima colazione ritornano i bimbi, questa volta sono in quattro, c’è il fratello grande, quello di ieri sera, ci portano pane caldo e burro, ricambiamo regalandogli un pile, una collana, una fascia e tutto il mangiare che abbiamo: un barattolo di marmellata e un po’ di biscotti. Passa un’altra mezz’ora prima di partire, nel frattempo i bimbi sono tornati, questa volta sono due, ci accompagnano fino alla pista poi ci chiedono di andare a casa sua, noi li salutiamo e proseguiamo per il nostro cammino. Il paesaggio è maestoso ed ogni volta che il sentiero entra in una nuova gola le montagne sono sempre più alte e l’ambiente selvaggio. Camminiamo per un’ora immersi nel silenzio tra frane e alberi di leccio semi-spogli per la voracità delle capre che pascolano queste montagne. Il crinale sopra di noi ricorda il Monte Calanche, ma è enormemente più grande. La prima presenza umana della giornata sono un gruppo di donne stracariche di legna che stanno camminando curve verso il loro villaggio, nonostante il peso e il fondo instabile del sentiero, appena vedono la macchina fotografica iniziano a correre. Continuiamo a salire il fianco destro di una lunga valle, sopra di noi la neve e sotto un grande strapiombo che termina nel oued, da cui risale il fragoroso suono delle sue rapide. Arrivati al culmine iniziamo a scendere ripidamente e incontriamo un bimbo pastore con le sue capre, il sole è caldo, ma quando si entra nelle gole fa freddo, nei punti dove batte poco il sole si vede ancora la neve. È un ambiente aspro, le pendici della montagna sono aride e quasi inaccessibili, ma nonostante questo il sentiero è contornato da terreni coltivati, con tanti muri di contenimento per cercare di contrastare l’instabilità del terreno che è caratteristica di questa zona. Scendiamo fino a guadare il fiume e poi risaliamo, ormai siamo circondati da cime innevate e da villaggi che non esistono sulle mappe, la vegetazione è formata quasi unicamente da ginepri e lecci che hanno nelle capre il loro nemico, qui i lecci hanno le foglie particolarmente spinose e hanno l’aspetto di cespugli di spine dalle forme morbide, quasi sempre rotondeggianti. La montagna e il sentiero sono fatti di argilla rossa che rende il cammino ancora più impegnativo specialmente per Segagnana che si impantana un paio di volte, si incontrano soltanto pastori, quasi sempre ragazzini o persone molto anziane, tutti molto schivi e silenziosi e danno l’impressione di essere sempre assorti nei loro pensieri. Arriviamo al punto più alto della giornata, è difficile capire la quota, ma dovremmo essere sui duemilacinquecento metri, a un certo punto si apre un paesaggio magnifico la grande catena dell’Atlante tutta innevata si apre davanti a noi che siamo immersi in una serie ininterrotta di colline rosse che ricordano il Monte Calendozio, ma con un estensione di decine di chilometri. È un paesaggio fantastico che inizia con le colline rosse per tuffarsi in valli verdi e poi risalire su montagne rigogliose che finiscono su altopiani e vette innevate.
Vediamo le prime case a destra e a sinistra del fiume, i villaggi hanno le stesse tonalità di colore della terra, decido di andare verso sinistra dove ci sono tre villaggi in sequenza abbastanza grandi all’interno dei quali spiccano due Kasbah, una diroccata, ma una ancora integra, sopra i villaggi una montagna ocra ricca di grotte. L’ingresso del paese è fra i mandorli ancora in fiore, è sicuramente il villaggio più suggestivo tra quelli finora visitati, è molto grande ma sembra quasi disabitato. Il sentiero è molto stretto e fiancheggia grandi case costruite di pietra, legno e fango, dalle aperture a volte si affacciano persone, a volte pecore, a volte galline, senza soluzione di continuità. Come immersi in un sogno attraversiamo i villaggi, il profumo della legna che arde rende tutto ancora più suggestivo. Il sole sta per tramontare e comincia a fare veramente freddo, cerchiamo qualcosa da mangiare e un posto dove dormire, una casa o un punto dove montare la tenda. Troviamo un piccolo negozio dove vendono principalmente lana e saponi, da mangiare hanno soltanto biscotti e una specie di nutella bianca e nera fabbricata in Olanda apposta per il Marocco. Ci procura anche un po’ di pane rimediandolo in una casa. Cerchiamo da dormire ma ci dicono che nel villaggio non c’è possibilità di alloggiare, quando ormai stiamo per lasciare il paese veniamo chiamati da un giovane uomo che ci invita a casa sua, ancora una volta saremo ospiti. La casa è la più povera tra quelle che abbiamo visto finora, come del resto anche il villaggio, ma è bellissima. Si comunica con i gesti e le espressioni, qui nessuno, nemmeno i giovani e i bimbi, parla francese e neanche arabo. Scarichiamo i bagagli nella “sala” e mentre Serena fa conoscenza con la famiglia, io seguo Mohammed, il fratello di Mhand, che ci offrirà la sua stalla per Segagnana, la stalla è in un posto favoloso proprio sotto alla grande kasbah diroccata. Facciamo merenda con latte caldo, pane e olio, mai così gradito e poi con l’aiuto dei biscotti e delle foto iniziamo a fare amicizia coi bimbi, dopo un the Mohammed ci invita a mangiare a casa sua e insieme al fratello ci spostiamo di pochi metri per entrare nell’altra casa. Il motivo di questo trasferimento è che qui c’è la televisione, ambizione e vanto di tutte le famiglie dei villaggi berberi. Mentre prendiamo l’ennesimo the il gatto di casa gira fra il tavolo e il braciere Mhand per scacciarlo lo manda con la coda dentro il braciere, la povera bestia parte con la coda fumante fra le risate generali e il puzzo di pelo bruciato che invade la stanza. Mohammed si è tolto l’abito tradizionale e si presenta per salutarci con una rifrangente tuta da lavoro, stile protezione civile, va al lavoro a fare il turno di notte sulla strada che stanno costruendo per collegare il villaggio, così mi sembra di aver capito. Senza il gonnellone sembra molto più magro. Mangiamo il tajine tutti insieme, poi guardiamo un po’ di televisione e torniamo alla nostra casa per dormire.