CategoryOttobre 2008

Sabato 11 ottobre 2008 Bizerte – Tunisia

Image  I timbri di Madame Saida
Oggi il mare è veramente grosso è la classica grecalata che “pela” di quelle che dalla spiaggia di Campo vedi lo Scoglietto e il Giglio a “due piani”. Comincia a preoccuparmi la scadenza dei tre mesi del permesso di soggiorno in Tunisia che scade il 20 ottobre, per rinnovarlo la polizia dice che  bisogna uscire e poi rientrare nel paese (andare in nave a Palermo e ritornare), per fortuna ne parlo con Don Ciccio che intercede e mi fa accompagnare in caserma da “messié” un distinto tunisino che lavora come cassiere al ristorante, e si trova la soluzione, si va da Madame Saida la donna dei visti, una fiera signora con cui sono tutti molto ossequiosi, che ci prolunga il permesso di venti giorni, con l’unico impegno di tornare in caserma una settimana prima di lasciare la Tunisia per apporre i timbri.
   

Venerdi` 10 ottobre 2008 Bizerte – Tunisia

Image La festa è finita
E’ una gran grecalata e fa freddo, Bizerte finito il Ramadan è un altro posto, la maggior parte dei ristorantini e dei chioschi che erano chiusi ha riaperto e i bar sono tutti strapieni di uomini che stanno seduti per ore davanti a un bicchiere di caffè. Telefono a casa parlo con Babbo e gli racconto dei tanti europei che stanno arrivando a Bizerte con gruzzolo di euro spaventati dalla crisi delle borse e poi sento Nicol in grande forma e tutta eccitata per la scuola e le lezioni di danza. La Fine del Ramadan ha pero` sancito la fine del clima di festa serale e dopo le otto è quasi tutto chiuso tanto che sembra che ci sia il coprifuoco. 
   

Giovedi` 9 ottobre 2008 Bizerte – Tunisia

Image Gli mms di elbaeumberto.com
Infatti il tempo è bello ma il coltello dalla parte del manico ce l’ha lui, Kaled. I barcaioli sono una delle categorie più bugiarde che esista, sempre pronti a non partire causa condizioni meteo marine avverse trasmesse da bollettini dei naviganti che ascoltano solo loro.
Comunque cose da fare non ne mancano, c’è anche da configurare il telefonino nuovo che fa anche le foto in modo da poter inviare gli mms direttamente dentro il sito, è una novità importante che ci consentirà di aggiornare www.elbaeumberto.com quando non avremo la possibilità di andare ad internet, il viaggio tra poco tornerà ad essere più avventuroso e lo sarà sempre di più e penso che  sia un buon sistema anche se chiaramente il segnale non ci sarà sempre.
Il telefono non si configura perché è rotto, il negoziante che ce l’ha rifilato non lo vuole cambiare dicendo che in Tunisia non si cambia la merce pagata e che le garanzie qui non valgono, fra urli e minacce reciproche finiamo in caserma e esco con un cellulare nuovo di pacca e di qualità superiore, in realtà mi sono fatto forza della mia condizione di straniero.
Come temevo in serata entra grecale, domani non si parte di sicuro.
   

Mercoledi` 8 ottobre 2008 Tunisi

Image Le ambasciate
Andiamo a Tunisi per Ambasciate, iniziamo da quella Italiana per fare il passaporto bilingue, per entrare in Libia è indispensabile avere questo documento tradotto in Arabo. All’ambasciata ci sono tante persone in fila soprattutto coppie miste italo tunisine, ce n’è una che non puo` passare inosservata lei un’italiana da un quintale con velo e fuseaux tutta indaffarata a disbrigare le pratiche e lui un allampanato ragazzo tunisino che si guarda continuamente intorno compiacendosi “dell’affare” che sta andando in porto, abbordare un’europea, portarsela in Tunisia per poi sposarsela e farsi mantenere è uno dei sogni dei tunisini e le donne italiane son le più ambite. Per fortuna la procedura che serve a noi viene fatta in un altro ufficio e la faccenda si risolve velocemente. Dal centro della capitale ci spostiamo verso nord dove ci sono la maggior parte delle ambasciate Africane, la più grande e vistosa è quella della Libia, un palazzo che sembra il deposito di Zio Paperone, siamo qui per richiedere il visto di ingresso, ci fanno accomodare in una lussuosa e asettica sala d’attesa con i divani di pelle nera dai cui vetri a specchio si vede il grande giardino. C’è grande cortesia, ma come previsto ci dicono che il visto per entrare in Libia viene rilasciato solo per affari. Con ancora meno speranze andiamo a sentire per il visto anche all’ambasciata Algerina che si trova poco distante, è una sede molto più modesta e sgarrupata e ha un’aria familiarmente maghrebina. Dopo un po’ di anticamera ci riceve una signora gentile dall’abbigliamento e dai modi molto occidentali che rimane affascinata dal nostro viaggio, ma non puo` fare niente per farci avere un visto d’ingresso nel suo paese. E` assurdo ma le difficoltà maggiori di questo viaggio sono di natura burocratica. Dopo una vana ricerca di un fotografo qualificato si torna a Bizerte con il louage. C’è da comprare i viveri per La Galite e chiudere gli zaini. Ma come temevo dal tono sfuggente della telefonata del mattino, non si va, Kaled dice di partire dopodomani quando il tempo sarà migliore, capisco che è una scusa ma non posso fare altro che accettare.
   

Martedi` 7 ottobre 2008 Bizerte – Tunisia

Image Autorizzati!!
La macchina un ne pole più! Ha perso il paracoppa, la chiusura centralizzata è morta, saltano le marce e la frizione slitta, è lercia come un è mai stato nemmeno “cinghio” ai tempi d’oro, la porto al lavaggio per rifargli un po’ il trucco e poi la riporto al noleggio appena in tempo e… vvvia, mi sembra di esse tornato ai tempi dei rally quando si riconsegnava la fiat uno dell’aci a Piombino dopo averci provato per tutto il fine settimana.
Al palazzo del governatore per prendere l’autorizzazione per La Galite, è tutto a posto possiamo andare e pernottare, non ci credo ancora.
Sono le 11 buonanotte.
   

Lunedi 6 ottobre 2008 Douiret, gli Ksour e il Mare – Tunisia

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Ksar Ouled Soltane

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Ksar Ezzahra

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dama di sabbia

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Ksar Jalided

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La magia degli ksour
Fa freddo all’alba quando il gallo ci sveglia, le donne del villaggio sono già in azione e stanno spazzando le corti terrose delle loro case. Metto in moto e si parte in direzione della Douiret vecchia, il sole arriva e la luce calda dell’alba colora il deserto di toni rossi. Il villaggio sembra molto più piccolo di Guermessa, anche qui c’è una moschea bianca alla base dell’abitato che si sviluppa su un unico colle sul cui culmine c’e’ la fortezza (kalaa) diroccata. Sul lato di Ponente a un chilometro da qui c’è un grande  marabutto che il sole incendia di luce dorata, Douiret è un paese meraviglia che si sta svelando man mano che il sole sale abbassando il sipario dell’ombra fino alla moschea, facendo risaltare le pietre dorate  nel cielo terso e potente di questa mattina. Prima di salire mi fermo a fare un giro nel cimitero dove ci sono tre tombe a cupola di marabutti e altre tombe bianche di importanti uomini di fede, da sempre il deserto è patria della mistica e qui evidentemente i santi abbondavano.
La strada arriva dritta fino all’inizio del paese, in una stalla ci sono due ciuchi, mentre dalle prime case delle persone ci stanno osservando, sono affacciate su un pianerottolo di un piccolo albergo aggraziato in costruzione, ma ormai praticamente ultimato, certo leva un po’ di fascino ma penso che sia il modo giusto di fare turismo, portando i visitatori a pernottare dentro le mura si permette di mantenere in vita, magari anche solo parzialmente, questi villaggi eccezionali, è costruito con cura in armonia con l’architettura del villaggio e gli impianti elettrici sono alimentati con cellule fotovoltaiche ben mimetizzate. Poco più avanti la moschea nuova che è aperta, l’interno è scarno e si sviluppa in un grande stanzone vuoto,  pero’ è collegata attraverso un cortile coperto alla vecchia moschea che è scavata dentro  la montagna, questa è molto più bella e affascinante con la grande sala sostenuta da grosse colonne cilindriche e adornata con tante iscrizioni a rilievo nelle mura,  saliamo in cima al minareto che ci regala una prospettiva impagabile sul villaggio e sul deserto. Risalendo i vicoli si incontrano due case ancora abitate, assomigliano tanto alle case grotta dell’Isola di Ponza, il villaggio si sviluppa come un forte che sale a spirale fino al vertice della collina, da qui si vede che le abitazioni si estendono anche lungo una fenditura che si trova nella lunga collina sul lato opposto alla moschea, disegnando un serpente sinuoso lungo sei o settecento metri. Le case abbandonate sono il regno dei “caterulli del deserto” c’è anche un grande frantoio con il tetto di tronchi di palma che probabilmente verrà restaurato. La vicinanza con la strada asfaltata sicuramente agevola le visite turistiche e stimola progetti di recupero, l’impressione è che si stiano facendo le cose per bene, speriamo che stavolta non vengano fatte schifezze. In vetta come sempre i corvi la fanno da padroni, sullo sfondo si avvista la polvere che sale dalla strada, sono dei fuoristrada con i turisti che arrivano mentre la luce magica va via e anche noi ce ne andiamo.
Cielo blu e montagne aride a righe ci fanno da sfondo, siamo nella zona dei grandi ksour, per primo incontriamo lo ksar di Ouled Debbab anche questo famoso per essere stato usato per le riprese di Guerre Stellari, ma è una delusione è stato trasformato in albergo e ha perso tutto il fascino diventando pacchiano come il dinosauro stile elbaland che fiancheggia l’ingresso.
Andiamo in direzione di  Ouled Soltane dove dovrebbe esserci lo ksar più bello della regione. Lungo la via incontriamo le donne al pozzo che con un bidoncino di latta travasano l’acqua nelle stagne attaccate sulla sella del ciuco, con la macchina si fa tanta strada e si vedono tante cose pero’ filtrate e un po’ da spettatori, non come quando si viaggiava col mulo, arrivare a questo pozzo con Tambone avvrebbe significato fare conoscenza con queste ragazze e magari finire a casa loro, arrivando cosi’ ti poni troppo come corpo estraneo e anche le foto sanno un po’ di furto.
Arriviamo al villaggio dello ksar più famoso, temevo di trovare file di pullman, biglietterie, bancarelle di souvenir e guide incartapecorite in cravatta e giacca forforosa stile villa di Napoleone di San Martino e invece anche qui ci siamo solo noi. Il gran Ksar di Ouled Soltane è irreale nel suo splendore di forme senza linee rette, un favoloso alveare di luce, sinuosità e armonia disuguale, naturalmente non è passato inosservato agli autori di Star Wars che qui avevano ambientato le abitazioni degli schiavi. Lo ksar è il simbolo di questa regione, è un tradizionale granaio fortificato costruito per conservare e proteggere i raccolti, ogni ksar è formato da “ghorfa”  piccole stanze lunghe e strette con un'unica apertura che affaccia sul cortile e che viene chiusa con porte di legno di palma, sono costruite con pietra e gesso e rifinite con il fango, il clima arido permetteva di conservare i cereali per decine di anni. Lo ksar era il cuore del villaggio, le ghorfa erano padronali ma c’era un custode spesso “uomo di moschea” che ne gestiva l’utilizzo impedendo sperperi e speculazioni ai proprietari e razionalizzando i consumi in maniera da avere delle riserve in caso di carestia, per garantire la sussistenza per tutti gli abitanti del villaggio. Lo ksar dall’esterno ha l’aspetto di un forte con un'unica porta detta la skifa da cui si accede al cortile, le ghorfa si sviluppano su più piani, questo ksar ne ha quattro, in alto si conservavano i cereali e in basso l’olio, i legni murati sopra le nicchie più alte facevano da gru per caricare con un sistema a carrucole il frutto dei raccolti nei vari livelli collegati solo da rampe di scale e da lastre inserite nella muratura che ricordano i gradini che sporgono dai muri a secco delle vigne alte nella Valle del Poio. Il sistema degli ksour era perfetto per queste terre e fu adottato anche dagli arabi e la maggior parte degli ksour, compreso questo, sono successivi all’invasione araba. Di solito lo ksour si sviluppa intorno a un'unica piazza ma questo ne ha due, dal primo cortile passando da una piccola porta si accede al cortile più interno, qui  la struttura che è stata splendidamente restaurata lascia senza fiato, è anche troppo perfetto tanto da risultare asettico, comunque bellissimo. La luce è calda e potente e lo sfondo blu perfetto. Quattro piani di stanzine stondate  a formare un anfiteatro di decine di nicchie ombreggiate che mi guardano come gigantesche tope rasate, mentre i legni di olivo e le ”lastre scalino” disegnano ombre nelle pareti come meridiane. Padroni silenziosi dello ksar sono dei grossi passeri con un collare che cangia dal  grigio al turchese a secondo di come ci riflette la luce. Prima di andare via mi fermo a chiacchierare con dei regazzi che gestiscono un piccolo bar, si lamentano perché non viene mai nessuno a parte qualche gruppetto di turisti frettolosi di stanza a Jerba che ogni tanto capita d’estate, sono dispiaciuti perché sono giustamente orgogliosi del loro gioiello architettonico, vorrebbero costuirsi un futuro qui, ma non vedono molte prospettive, parliamo un po’ e gli racconto del Viottolo e delle mie idee sul turismo. Sono contento, a Bizerte in un mese non ho strinto nessun rapporto umano vero, in questa regione seppur visitata in maniera frettolosa ho ritrovato l’entusiamo e la magia dell’Atlas. Il sole è ormai alto e fa caldo, una stradina tutta dossi ci porta a Ksar Ezzahra, sono solo pochi chilometri ma sufficienti per entrare in una dimensione totalmente estranea al turismo, è un villaggio piccolo ma vivo con i vecchi Peugeot 404 cassonati che troneggiano nella piazza. E’ un crescendo di bellezza, questo è un paese vero con lo ksar ancora attivo, dalle vie passano una serie di personaggi favolosi con i vestiti tradizionali, che qui arrivino pochi estenei lo si capisce dal fatto che siamo noi l’attrazione del paese. Serena mi chiama è davanti alla skifa che come a Ouled Soltane si apre sullo ksar, una luce magica filtra all’esterno, dalla piazza di terra con al centro un albero. E’ la porta delle porte, la vera porta spazio temporale, entri dentro e si apre un'altra dimensione, la porta di questo ksar è la trasfigurazione della fica, ti apre orizzonti inimmaginabili. Appena dopo l’ingresso ai margini del cortile interno i vecchi saggi del villaggio sono riuniti nello scuro irregolare di un ombra composita, giocano e disegnando con le mani universi nella sabbia, sereni e fieri, distaccati dal mondo esterno, quello dei soldi e dei cercatori di esclusive, senza parole capisco che la foto bellissima che vorrei scattare è inopportuna, uno sguardo collettivo di intesa me lo comunica, le parole non servono. Mentre cammino mi perdo nelle forme surreali e nel silenzio di questo universo di sagome e ombre sinuose, salgo dalle scale di lastre inserite nelle pareti, nelle ghorfa più alte, alcune delle quali conservano ancora un po’ di grano, gli “scalini”  sembrano buttati a casaccio nella parete, ma è tutto calcolato e ti permettono di salire con facilità. E’ un posto incantevole, che sa di libertà dove contemporaneamente ti senti libero e ignorato. Osservo il rito del the e la dama di sabbia e sassolini, poco distante c’e chi dorme nell’ombra dentro una coperta. Qui l’aria è densa di saggezza, mi sdraio in un angolo all’ombra di una ghorfa, gli aromi di terra e di sansa, di olio e di polvere mi invadono piacevolmente, anche le mosche addosso non disturbano, anzi portano messaggi, un anziano mesce il the scandendo frasi  lente e rituali e su tutto questo la luce forte del deserto che ti rimbalza di fianco anche quando ti accucci all’ombra di una delle  mille curve dello  ksar la percepisci sempre, anche ad occhi chiusi. Nelle vesti ampie, nelle rughe, nel rito del the, nella schacchiera disegnata nella sabbia e nelle pedine di sasso, una sensazione di pace e verità rivelata, è il regno dell’essenza dove l’apparente nulla diventa tutto e allo stesso tempo qualsiasi cosa è di troppo. E allora la macchina fotografica diventa un sasso dalle forme sgraziate e le ciabatte sgradevoli preservativi che ti allontanano dal contatto con il suolo. Non so quanto tempo è passato quando apro gli occhi, forse un’ora o magari solo dieci minuti, ma è stato un tempo speciale, “hai già dormito?”  mi chiedono ironici con il palmo aperto delle mani i “padroni di casa” mentre mi appresto ad uscire dalla skifa, saluto muto e rituale come un Amazigh e lascio i veri jedi nel “tempio senza tempo”.
Uscendo ritrovo la luce piena del deserto, quella che ti abbassa lo sguardo e ti ingigantisce le grinze dell’occhi. Continuiamo nell’arsura lungo una stretta carareccia e ci ritroviamo al grande ksar abbandonato Jelidet, è il più grande di quelli visti, si entra da una larga porta blu, è sbiancato da una luce accecante e circonda una vasta piazza rettangolare con una costuzione nel mezzo. Poi ancora deserto e  ksour, uno per ogni villaggio incontrato, la pista è stata cancellata dalla pioggia e una deviazione ci porta sulla strada asfaltata per Tataouine. Appena passata la cittadina, come spesso è capitato in questi giorni, diamo un passaggio, da queste parti sono poche le persone che hanno una vettura propria e per spostarsi si usa tantissimo il passaggio, si vedono tante persone che con l’immancabile sacchetto di plastica nero porta tutto, camminano apparentemente verso il nulla, vanno senza sapere quando arriveranno… inshallah. Siamo molto vicini alla Libia e ormai siamo vicini al mare, attraversando una zona che le carte stradali e le guide ignorano, è un deserto strano questo, è tutto coltivato ad olivi che si estendono per decine di chilometri fino al mare  …   radio tunisi trasmette  in lingua italiana e ci fa ascoltare  le canzoni di un cantautore siciliano, il tormentone “ventu quandu te’ncazzi mi fai paura” mi si inculca nel cervello. Il nostro passeggero ci saluta alle porte di Ben Guerdane un paese dai tanti distributori che non esiste sulla guida della Lonely Planet, come non esiste tutta questa zona. Nelle vie c’è tanta gente e i cartelli stradali che indicano Tripoli e il Cairo ci fanno capire che il confine è vicino, le donne sono vestite in modo molto più “coranico” rispetto a Bizerte, è tutta un'altra Tunisia, diversa come per l’Italia lo sono Bolzano e Palermo. Nei pressi di El Marsa finalmente arriviamo al mare, Douiret che abbiamo visitato all’alba è un mondo lontano, il mare davanti a noi è una laguna dove pascolano fenicotteri rosa e garzette. Sfrutto la bassa marea per camminare dentro l’acqua e fare qualche foto ai fenicotteri, poi prima che la marea si prenda la macchina ripartiamo. Il tramonto è ormai vicino queste giornate piene mi hanno fatto tornare l’entusiamo e fra pochi giorni La Galite, ancora non ci credo che abbiamo l‘autorizzazione. Lungo la riva le donne raccolgono la “salycorn” l’erba grassa che cresce sul limite della marea e che avevo già visto a Kerkennah. Una lingua di terra sottile chiude la laguna che parte dal forte di Naoura e porta fino a un piccolo villaggio di pescatori, le   barche di legno e le gorgoulette richiamano immagini kerkenniane, come anche il marabutto di Sidi Ahmed Chaouch che si trova proprio alla fine dell’istmo, su un piccolo isolotto che si puٍ raggiungere a piedi con la bassa marea. Le ultime barche rientrano quando cala il sole, si riparte in direzione di Zarzis, c’è traffico, è normale siamo alle porte di Jerba. Con il buio la situazione diventa infernale, motorini a fari spenti, macchine contromano e senza fari, è come un video gioco di quelli che diventa sempre più difficile, arriva anche Medenine e poi ancora Gabes, da un camion volano pancali con casse e scatole di frutta. Nella notte la strada si illumina di rosso con i “distributori” segnalati da neon messi dentro le stagne rosse, è il gran souk del petrolio che si estende per decine e decine di chilometri, nell’attesa dei clienti si mangia arrostendo la ciccia e scaldando the con il fuoco riparato da un cerchio di contenitori di benzina, fanno tutti cosi’ come se fosse la cosa più normale del mondo, è come percorrere una chilometrica bomba molotov. Poi arriva anche la pioggia con gli immancabili incidenti, quando la strada si allarga e diventa a due corsie il traffico scorre più veloce ma bisogna fare ancora più attenzione perché i motorini e i furgoncini senza fanali viaggiano contromano per vedere chi arriva e poi ci sono i mitici Stop della polizia, quelli che se ti fermi ti guardano come a di’ “oh fava ma che ti sei fermato a fa’!” ma se passi anche piano piano ti fermano e ti cicchettano per non aver rispettato lo Stop. Per fortuna sono quasi sempre a mangiare in qualche chiosco e ci sono solo i cartelli incustoditi, comunque quando vedono che sei italiano ti lasciano passare, ma con i Tunisini “c’è un gran commercio”. Da Sousse prendiamo la nuova autostrada, i caselli sono ancora in costruzione quindi non si paga, arriviamo a Bizerte che è quasi l’alba.             
   

Domenica 5 ottobre 2008 da Matmata a Douiret – Tunisia

 

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dentro il Sidi Driss

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Toujane

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olivi nel deserto

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Ksar Hallouf

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Ksar Haddada

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Il Marabutto di Guermessa

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La Vetta di Guermessa

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La Piramide di Roccia

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La Moschea Troglodita

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La strada sospesa

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Il Santuario dei sette Dormienti

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Da Star Wars a i sette dormienti passando per il magico villaggio di Guermessa 
Durante la notte solo qualche goccia, risalgo verso Matmata il cielo è sempre scuro, visto che siamo qui voglio vedere alcuni luoghi cult di  Guerre Stellari a cominciare dal famoso albergo troglodita Sidi Driss dove sono state girate tante scene, in realtà è molto meno turistico di quello che credevo, mi aspettvo grandi poster, spade laser e la maschera nera di Darth Vader, invece i richiami si limitano a una scritta  e un disegno, dentro la struttura ci sono ancora alcune scenografie, porte, tubi e reattori vari, è strano girare in una struttura che è comunque anche un albergo con la gente che dorme nelle camere. Dopo “il cinema” un  giro per vedere le famose case troglodite  la maggior parte sono disabitate o usate solo come stalle ma alcune sono ancora abitate, bisogna stare attenti quando si cammina perché il cortile interno si vede solo all’ultimo momento e volarci dentro non è poi cosi’ difficile. Riprendiamo la clio che tutta infangata ha tutt’altra presenza, la strada vecchia   per Tataouine è molto bella, tortuosa e sempre si snoda fra monte e strapiombi, ci fermiamo per affacciarsi su un costone roccioso che precipita nel vuoto per diverse centinaia  metri, fra le rocce ci sono dei fiori bianchi che assomigliano ai gigli di spiaggia. Dopo una mezz’ora di deserto vediamo una casa isolata non lontana dalla strada, è abitata, ci sono due donne molto giovani, un bimbo e tre bimbe, la più piccola è misteriosamente bionda, mi fanno capire che è la sorella più piccola e che è nata bionda, faccio fatica a crederci anche se gli occhi si assomigliano tanto. E’ una casa poverissima assomiglia tanto a quelle incontrate sull’Atlas in Marocco e come li’ troviamo tanta gentilezza e opitalità, le due donne dai linementi eleganti ed austeri sono curiose e gentili ma anche un po’ sorprese e imbarazzate della nostra presenza e anche i bimbi che come sempre si divertono a vedere le foto nella macchina digitale, vorrebbero le foto ma questo è un posto senza indirizzo e loro di qui non si muovono, gli uomini mi sembra di capire che lavorano lontano. Ci salutiamo, dopo una mezz’oretta all’uscita di un tornante sotto di noi si apre un bel paesaggio su una grande gola, nella parte alta c’è un paese di pietra, è il villaggio Berbero di Toujane. Sulla strada qualche bancarella, il villaggio si sviluppa prevalentemente sotto strada e la moschea bianca sembra l’unica cosa integra, in alto poco sopra la strada c’è la sorgente dove alcune ragazze stanno prendendo l‘acqua che portano legandosi sulla schiena le stagne di plastica a mo’ di zaino. Mi passa davanti un anziano che per camminare si aiuta con un bastone di legno nodoso lucido e sottile, sembra lento ma scompare veloce fra i vicoli. Da lontano sembravano macerie e invece ci vivono tante persone, le case hanno il soffitto a botte, tanti tetti sono crollati ma gli edifici vengono utilizzati come stalle, ovili o pollai. Che siamo nuovamente in zona berbera lo si capisce anche dalla ricchezza e varietà di colore nei vestiti, da una porta appare una ragazzina avvolta in uno scialle blu che sembra la madonna e al suo fianco una ragazza vestita di rosso è adornata con spille d’argento e bracciali d’oro, nel borgo mi si avvicina una bimba, bella ed elegante fieramente scalza la piccola principessa degli stracci fa da mamma al fratellino curioso che mi mostra orgoglioso il suo finto cellulare che porta al collo e poi come nelle fiabe arriva la donna nera, scende dalla via con bastone e paiola, ha una fascia rossa sulla fronte che tiene il velo, le unghie delle mani da gigante arancioni di henné e un grande bracciale d’oro. C’è qualcosa di magico fra questi sassi, sarà la luce che filtra dalla cappa scura delle nuvole o il silenzio reso greve dal vento freddo di tempesta che scende dalla montagna, ma c’è un’atmosfera epica da signore degli anelli. Un’altra “principessa” con spilloni d’argento e mantello sgargiante, è la principessa dell’ovile che insieme ad altre due donne, probabilmente la mamma e la sorella è dentro il recinto dove alloggia un gregge di pecore e capre, è una scena da presepe vivente ma è tutto vero con le tre donne che preparano il mangime per le bestie perché qui l’erba non c’è e quindi le greggi si nutrono con granaglie secche. Qui si ricicla tutto c’è un muro fatto di vecchie carrette sullo stile delle recinzioni anticinghiale fatte con le reti da letto che usano da noi. Lasciamo Toujane sotto lo sguardo perplesso di un dromedario che passa il termpo a grattarsi il muso sul terreno. La strada scende fino a ritroavare la pianura dove c’è un minimo d’erba, qui incontriamo due donne pastore, la più alta assomiglia a un dromedario è un’abilissima lanciatrice di sassi e gestisce il gregge con lanci mirati, non gradisce le foto e mi fa capire chiaramente che se continuo il prossimo è mio. Continuamo per le stradine  che sembrano portare verso il nulla, incontriamo una donna arancione dai tanti gioielli che ci sorride mentre prende l’acqua da un pozzo e poi diamo un passaggio a un uomo assai sorpreso del fatto che non sono tunisino. E’ un deserto di pietra intervallato da qualche cespuglio, ora che è tornato il sole sembra ancora più arido, incontriamo un grande oued secco e poi ancora segni dell’alluvione che ha cancellato un pezzo di strada, dopo una deviazione ci fermiamo vicino a un pozzo dove ci sono i tanti melagrani stracarichi di frutti  che vengono irrigati per mezzo di una pompa a vento, è una piccola oasi ci sono anche palme e olivi e un gruppo di uomini che sorseggia thè alla loro ombra. Gli olivi sono piante eccezionali se ne trovano molti in questo mare di sassi  apparentemente sterile, ogni tanto dal niente spunta un paesino e poi ancora sole e sassi, è un ambiente troppo duro per essere attraversato con un mulo, infatti di gente che si sposta non se ne incontra, sui picchi più alti di tanto in tanto appare come in un miraggio un marabuto isolato. Ritrovato l’asfalto dopo poco troviamo a bordo strada un po’ di legna raccolta dentro un  mantello rosso, poi la strada ci porta dentro  Ksar Hallouf dove troviamo un  piccolo ksar (granaio fortificato) ancora attivo. E’ un posto vero fuori dalle rotte dei turisti, che in realtà oggi non abbiamo mai visto, la strada asfaltata è dissonante con tutto il resto, qui regna silenzio è uno di quei posti lenti dove tutto sembra essere sempre uguale, la vera novità siamo noi e la nostra bramosia di foto che gli occhi perplessi dei pochi presenti pigramente osservano.
La strada si snoda come un serpente di asfalto, in un continuo saliscendi, su una collina sopra di noi un grande pacchiano dinosauro di cemento ci indica che qui sono state trovati resti dei grandi rettili del passato, poi una grande depressione ricca di grotte e poco più in alto l’abitato di Ksar Haddada che un gran cartello indica come il paese della “Minaccia Fantasma”. Lo ksar è molto grande ma è stato restaurato e trasformato per esigenze cinematografiche, alla fine risulta scialbo in tutto perché  anche le tracce del film non sono né evidenti né enfatizzate. Lo ksar era stato trasformato in albergo prevedendo un grande successo legato alla storia cinematografica, ma evidentemente non ha funzionato perché è ormai tutto in degrado con le camere e i bagni che si stanno decomponendo, solo una piccola parte si conserva bene e alcuni ambienti ricordano Star Wars. Mentre gironzoliamo arriva un gruppo di turisti, sono nord europei probabilmente arrivano da Jerba accompagnati qui con grandi quattro per quattro, fanno un giro veloce dello ksar e dopo dieci minuti scarsi se ne vanno, osservo i fuoristrada sono gli stessi che ho visto a Douz sono addobbati da impresa transahariana ma se li guardi bene si capisce che vanno solo sulle strade bitumate, infatti hanno le gomme da asfalto e sono immacolati.
Ancora deserto di sassi, una ventina di chilometri e arriviamo a Guermessa Nouvelle il paese nuovo costruito in pianura, ma lo sguardo va in alto dove fra due colli si sviluppa l’antico paese fortificato spettacolare per quanto minetizzato nella roccia. Una fortezza nel deserto Guermessa, due colli e una moschea, la strada strerrata che sale è impraticabile ne manca una decina di metri, facciamo una deviazione e giriamo intorno alla collina per salire dall’altro lato dove c’è un marabutto con la cupola di un insolito color acquamarina, poi si risale fino alle prime abitazioni, a poche decine di metri dalla moschea bianca dove c’è parcheggiato anche un vecchio furgone pik up. La Lonely Planet che mi porto dietro definisce Guermessa semplicemente come villaggio Berbero, lo trovo molto riduttivo, questo luogo è molto di più e poi anche berbero è un termine che non mi piace. Berbero deriva dal greco barbarikos (stranieri) cosi’ vennero battezzate  le popolazioni che gli ellenici trovarono qui, le stesse che i romani definvano semplicementi africani, io  questo termine lo associo ai mitici Amazigh dell’Atlas gente straordinaria che ho avuto il privilegio e l’onore di conoscere, ma in realtà si tratta di un’etnia molto diversificata e divisa in tante tribù, qui in Tunisia il ceppo più importante risale alla civiltà Numida che trova le sue origini nel neolitico, questa popolazione domino’ le zone più ricche e fertili prima di subire le dominazioni Puniche e Romane alle quali comunque mai si assoggettarono completamente, come racconta bene la storia dei territori visitati nei giorni scorsi. In queste zone più impervie e desertiche che non interessavano agli invasori le popolazioni originarie hanno vissuto in relativa tranquillità per secoli sviluppando i loro insediamenti in pianura fino alla metà dell’undicesimo secolo quando,  per sfuggire all’invasione Hilaniana (le tribù arabe che dall’Egitto invasero il Magrehb portando morte e distruzione)  si traferirono su queste roccaforti di pietra costruendoci i loro villaggi, sfruttando inizialmente precedenti insediamenti che diventeranno poi città fortificate scavate nella roccia, e si ampliarono sempre di più per poi rimanere abitati fino a pochi annifa. La storia ci dice che i Berberi che prima erano stati anche ebrei e cristiani accettarono di buon grado l’islam come religione ma gli arabi molto meno e ancora oggi appena ci si allontana dalle città e dalla costa si respira forte l’identità Berbera che sente gli arabi come invasori, qui a differenza del Marroco sono solo sensazioni anche perché viaggiando cosi’ velocemente non c’è il tempo di parlare con la gente, ma certe cose si percepiscono bene se si è un po’ allenati.
La città antica di Guermessa si presenta subito come eccezionale anche perché aiutata dalla luce bassa della sera che rende tutto più fiabesco. La moschea fra le due colline è il punto di partenza per i tanti viottoli che si snodano fra le spaccature nella montagna, poco più in alto incontro due donne che stanno scendendo, le case sono tutte abbandonate ma si capisce che è un abbandono recente, spingendo le piccole porte di legno di palma si entra dentro le stanze che spesso sono frantoi dove ci son tanti grandi orci e le macine. Cammino risalendo un viottlo fra i muri a secco sul fianco sinistro della montagna, ogni tanto entro nelle case che sono incredibili, la luce filtra dalla porta e dalle tante piccole feritoie che come spioncini si aprono nelle pareti, nel fianco della montagna c’è una grande spaccatura dove ci sono centinaia di abitazioni, molte di più di quello che si intuiva dal basso, questa è una vera e propria città nella pietra pur non avendo niente di monumentale fa venire in menta Petra la mitica città dei Nabatei. E’ la montagna dalle cento case, stanza dentro stanza fino alle ultime stanze, le più piccole e buie, la terra plasmata con le mani e si vedono le tante impronte  essicate sulle pareti e sui soffitti, tutte simili e tutte diverse, anche questo è un regno del silenzio ci siamo solo noi due. Man mano che si sale la collina più bassa diventa sempre più mistica con la sua forma di piramide perfetta, voglio salire fino alla vetta per andare su quello che doveva essere l’ultimo baluardo in caso di assalto nemico. Nella zona più alta ci sono delle grotte  ricche di iscrizioni, la roccia è a volte tenera e altre molto compatta, salendo verso la vetta ci sono dei punti  dove  affiorano delle conchigie fossili mentre in altri punti ci sono delle intrusioni di roccia compatta e dura che sembra selce. La vetta è un altopiano di roccia, sembra una grande piazza pavimentata con lastre ciclopiche, da qui il panorana è un 360 gradi di meraviglia, sul villaggio la piramide e la grande pianura circondata da montagne di terra con la sommità di roccia, si vede benissimo che l’erosione ha disegnato questa spettacolare orografia, mi passano praticamente sotto i piedi un gruppo di corvi, mentre in lontananza veleggia un grande falco, forse un biancone. Poi inaspettata una sorpresa, guardando in basso davanti ad una casa grotta all’altezza delle abitazioni più alte c’è una persona, imballata in un jallabad che qui chiamano bournous, scendo e insieme a Serena che era rimasta più in basso lo andiamo a trovare. Ci accoglie ridendo sonoramente, è un mestro Sufi che vive qui da solo, la gente del villaggio gli viene a fare visita e ogni tanto di qui passa anche qualche straniero, ma non è certo qui per chiedere l’elemosina, anzi ci offre delle pere e mi riempie le tasche con le caramelle e semini che gli hanno portato le donne che avevo incontrato all’inizio del villaggio. Non è un Sufi serioso, cupo e assorto nelle meditazioni, ma un uomo allegro e ridaccione, tanto lontano dai Sufi incontrati sull’Atlas che andavano in trance fra musiche e canti ossesivi in un clima comunque un po’ angosciante. E’ un uomo sereno e divertito, poi perٍ pur restando placido, diventa silenzioso e mi accompagna a visitare un incredibile santuario sotteraneo, è una moschea troglodita scavata nel cuore della montagna tutta dipinta di bianco, ci sono tante scritte in rilievo e forme di mani e piedi sulle pareti e sul soffitto, l’interno è inaspettatamente grande con tanti archi che formano tre navate, ci sono svariate nicchie, tante colonne irregolari, mi indica delle iscrizioni che non comprendo ma mi incanto ad osservare la sua espressione sognante. Usciamo e andiamo a vedere il tetto, dall’esterno è impossibile capire cosa c’è sotto, c’è anche un  minuscolo minareto senza mezzaluna come mi fa notare Bubakri Hamza, cosi’ si chiama l’Obi-Wan Kenobi di Guermessa. Davanti alla sua grotta scavati nella roccia che sembra un pavimento ci sono scavate due scacchiere una con dei cerchi grandi  a forma di tazza e una più piccola per giocare a dama con i sassi. E’ stato un incontro di pochi minuti, ma è uno di quelli che non dimentichero’.
Il viottolo principale che gira intorno al colle come una circonvallazione ci riporta alla moschea grande, che ora sembra quasi banale. Andiamo verso la vetta della Piramide camminando su una larga passarella di pietra che sembra sospesa nel vuoto, la luce calda e l’assenza di vento aggiungono magia alla magia, è un privilegio grande essere qui.
Ancora deserto di roccia, una decina di chilometri e siamo a Chienini nuova, anche qui c’è  un villaggio scavato nel fianco della montagna, ma siamo sulla strada principale e quindi all’interno del circuito turistico, i bimbi ci si fiondano incontro chiedendo argent con occhi spiritati, poche decine di chilometri e siamo in un’altra dimensione rispetto a quella di Bubakri, quella purtroppo molto più usuale della violenza e del denaro. Chenini è famosa per le Tombe dei Sette Dormienti i santi giganti citati nel Corano, il santuario si trova a un paio di chilometri dal villaggio antico, ci arriviamo che il sole è già tramontato, la  luce flebile si impasta nelle forme morbide e bianche del santuario, le famose tombe dei giganti sono qui davanti a me, io ne conto undici ma forse sono anche di più. Questa leggenda è cara sia ai credenti cristiani che ai mussulmani e seppure con le inevitabili varianti è molto simile. La storia dei  Dormienti cristiani è ambientata ad Efeso e narra di
sette giovani cristiani che intorno al duecentocinquanta, perseguitati per volere dell’imperatore pagano Decio grande nemico dei cristiani, si rifugiarono in una grotta dove furono murati vivi. La leggenda dice che si risvegliarono duecento anni più tardi sotto l’imperatore cristiano Teodosio II  potendo professare liberamente la loro fede, morirono perٍ il giorno stesso addormentandosi felici e come si usa dire in grazia di dio e vennero fatti santi. La storia dei Dormienti di Chienini non è molto diversa ed è riportata nel Corano nella diciottesima Sura, racconta dei Dormienti e del loro cane, senza specificare il numero, che si addormentarono da cristiani perseguitati dai romani e si risvegliarono quattrocento anni dopo  in un mondo dominato dall’Islam, nel frattempo erano diventati dei giganti lunghi quattro metri, la leggenda vuole che anche qui vivranno solo un giorno ma abbastanza per convertirsi alla nuova religione e quindi pronti per andare beati in paradiso.
La morale pero’ credo che sia sempre quella, se sei convinto di una cosa prima o poi arriva pero’ ci vole pazienza, magari qualche giorno in più l’avrei fatti campa’.
Relais e pullman alla base di Chenini, andiamo verso Tataouine inseguendo un tramonto di fuoco. Tataouine la sera è semideserta, siamo gli unici stranieri e Serena è l’unica donna in giro, pero’ troviamo persone gentili e pasticcini buoni, poi ritorniamo verso Douiret e dormiamo in uno slargo dentro il villaggio nuovo.
 

   

Sabato 4 ottobre 2008 da Ksar Ghilane a Matmata – Tunisia

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Bir Soltane

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Tamezret

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casa troglodita

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Haddej

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Il Marabutto

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Le case troglodite

Inizia a fare giorno ma rimane scuro, ci sono tante nuvole nere che sembrano minacciare pioggia. Partenza lanciata, devo uscire veloce dalla curva secca per superare il tratto di sabbia, fatto!  Attraverso il villaggio dei distributori e via lungo l’interminabile rettilineo dai tanti dossi, lungo la strada devo fare attenzione ai dromedari che sembrano nervosi per l’aria di tempesta e anche alla sabbia sulla strada  che rispetto a ieri è aumentata di molto. Dopo una trentina di chilometri deviazione a sinistra dove c’è una pista che porta al Pozzo di Bir Soltane, un tempo prezioso punto di rifornimento per uomini e carovane, oggi è praticamente abbandonato perché si trova all’interno di una zona militare, dopo poco infatti c’è un isolato posto di guardia dal quale un ragazzo in mimetica con un grande mitra mi ferma ma solo per indicarmi la strada giusta per il pozzo.
E` una mattina fredda e ventosa con le nuvole scure sempre più minacciose, qui a volte passano anche anni senza piovere ma ora stanno arrivando le prima gocce, il pozzo è molto antico ed è coperto da una cupola in muratura, le pietre del pozzo hanno il bordo interno con dei solchi profondi creati dallo scorrere delle corde che per secoli hanno tirato su acqua. Oggi a fianco del pozzo c’è un traliccio che sosiene l’elica di una pompa a vento  che porta in superficie l’acqua per un abbeveratoio e per il vicino corpo di guardia, le pale mi riportano in mente l’aerogeneratore del faro del Giglio. Bir Soltane è solo un pozzo ma è un luogo che evoca imprese mitiche soprattutto guardando le gigantesche dune gialle sullo sfondo che segnano l’inizio del grande Erg Orientale. Ancora dossi e poi la strada principale per Matmata lungo la quale su una collina si incontra il  paese di Tamezret tutto costruito in pietra, è bello peccato che è tutto circondato da cavi dell’energia eletrica. Si vedono le prime case scavate nella roccia, sono le famose case troglodite della regione di Matmata, diventate famose con Guerre Stellari per essere state usate nei vari episodi, queste lungo la strada principale si vede che sono attrezzate per i turisti con tanto di parcheggio davanti, infatti questa è la strada che percorrono i pullman per andare da Jerba a Douz. 
E’ una zona che merita di essere visitata bene ma ora la priorità è inviare a Bizerte la documentazione necessaria per andare a La Galite, breve sosta a Matmata vecchia per cercare senza successo un internet e un fax, poi giù in discesa verso Matmata nuova con lo stesso risultato, quindi bisogna andare a Gabes, grande città sulla costa che un tempo era il punto di arrivo delle carovane transsahariane e importante mercato di schiavi. Oggi è un importante polo industriale petrolchimico che si è sviluppato da quando hanno cominciato ad estrarre il petrolio nel golfo omonimo. Si attraversa una grande palmeraia e poi si entra nell’abitato, il centro è assimilabile a una città europea, andiamo al palazzo della telematica (qui c’è l’università di tecnologia e ingegneria informatica) è un centro grande con computer ultramoderni e ragazze velate con l’hi pod, è il posto ideale per spedire e in poco tempo riusciamo a fare tutto. Si ritorna verso Matmata, dopo il palmeto incotriamo una carovana di asini porta acqua e il grande oued che anche qui porta i segni dell’alluvione, poi quando inizia la salita le prime case troglodite. Mi fermo e iniziamo a camminare verso quello che sembra un villaggio sotterraneo ancora abitato, qualche piccolo cumulo di legna e letame e un pannello fotovoltaico non ci sono tracce, solo terra nuda, ogni tanto si trova una specie di cratere ti affacci e dentro vedi una specie di palazzo scavato nella terra a due o tre piani, la maggior parte sono abbandonati ma tre o quattro case sono abitate anche se ora non c’è nessuno.
Non è roccia è proprio terra e nemmeno troppo compatta, ci sono dei pannelli fotovoltaici che forniscono elettricità a bassa tensione sufficiente comunque per l’illuminazione e per ascoltare la musica che in Africa è comunque una priorità, il pavimento del cortile interno è in terra battuta, le porte sono di legno di palma e le pareti in alcuni casi sono imbiancate con la calce, per entrare nel cortile di ingresso si passa da una specie di arco sotterraneo che difficilmente si vede arrivando.   Camminando fra questi “crateri” apro una porta e mi trovo dentro uno spettacolare frantoio, non c’è nessuno ma è chiaramente ancora attivo come testimoniano le tracce e gli odori. E` tutto scavato nella terra e nella stanza più grande c’è  la macina in pietra con la parte circolare che fa da fondo tutta unta, sopra ci gira una ruota dello stesso materiale che fa perno su un palo verticale posto al centro e viene fatta ruotare  per mezzo di un asse che viene fissata su un animale, tradizionalmente questo lavoro lo facevano i dromedari ma qui le cacate indicano chiaramente che il lavoro duro lo fa un asino. Nella stanza a fianco c’è un altro sistema di spremitura con una pressa che sembra uscita dai cartoni animati dei Flinstones, c’è un foro profondo nella terra dove si inserisce un tronco di palma lungo circa sei metri che con delle corde viene tirato su e sotto si inseriscono dei cesti morbidi bassi e schiacciati a forma di disco che vengono riempiti di sansa, vengono messi sotto il tronco e inframezzati da sassi i tipo calastre, in pratica è una pressa sul principio del “pondo “ arcaico, sistema di spremitura dell’uva il cui funzionamento ho raccontato tante volte durante le escursioni nelle Valli di Pomonte e Chiessi.
E mi ritorna in mente Beppe di Pomonte che quando li raccontavo del viaggio (questo) che volevo fare  mi disse “che te ne fai di parti’ qui c’è tutto, e quello che un c’è c’è già stato basta ricordassi del passato”. 
E` tutto molto affascinante ma anche precario, ovunque resti di case crollate, basta un po’ di pioggia e si scioglie tutto. E` comunque il sistema più logico per abitare questa terra, dove oltre alla vegetazione sono rari anche i sassi, è sicuramente molto più confortevole e fresco rispetto a una casa di cemento, dentro queste stanze si sta benissimo anche perché qui l’umidità non esiste. Ritorniamo verso la strada, le case pozzo vicino sono ormai meta dei turisti, un turismo veloce e superficiale che sicuramente porta qualche soldo ma passa e va, guardo questi pullman che si fermano pochi minuti e poi ripartono, quasi per dire “ci sono stato” , mi rendo conto che io vado piano e ne sono fiero. Il vivere sull’Isola mi ha insegnato a osservare e cercare in spazi limitati, a volte basta percorrere pochi metri per scovare meraviglie. Matmata è vicina ma una strada sterrata a sinistra mi incuriosisce, siamo nella zona del villaggio di Haddej e qui sono ancora molto evidenti le tracce dell’alluvione che nel millenovecentosessantanove distrusse gran parte delle abitazioni, oggi in gran parte trasformate in ovili. Nel villaggio odierno le case a forma di scatola di scarpe in cemento sono  prevalenti e stanno sostituendo quelle tradizionali a pozzo, da qui iniziano i lavori di  un grande stradone in costruzione a breve ci  arriveranno i bus provenienti dalla vicina Jerba, la principale meta turistica della Tunisia, e cambierà tutto velocemente, con gli schivi pastori che si trasformeranno in tanti venditori di souvenir a caccia di facile argent, è un modello di sviluppo che non mi piace, uccide le cose vere, trasforma culture millenarie in spot pubblicitari.
La strada si sviluppa con larghi curvoni sterrati che invitano a guidare di traverso, queste strade grandi che di solito preludono alla distruzione di paesaggi e culture sono perٍ in questa fase intermedia, prima del bitume, un parco giochi irresistibile per chi ama guidare sullo sterrato, quindi ignoro il divieto e entro subito, guido tranquillo ma poi mi faccio prendere la mano e senza rendermene conto finisco per entrare a palla dentro un cantiere attivo, dove finisce la ps. Tornando indietro mi rendo conto che il bordo strada è delimitato da tondini di ferro che sporgono di pochi centimetri dal terreno, se ne prendevo uno bene che andava squarciavo una gomma.
Sulla sommità della collina più alta c’è un piccolo marabutto che domina tutto, ci fermiamo vicino al villaggio per vedere le vecchie case abbandonate e salire fino al santuario, due bimbi ci vedono e si aggregano, si vede che qui bazzicano comunque i turisti perché hanno una gran bramosia di fare le guide,” vien ici, vien ici” nei loro occhi non c’è la curiosità dei bimbi e nemmeno l’orgoglio degli Amazigh, solo il mito effimero dell’argent, quello che rende cupi anche gl’occhi dei bimbi. Passiamo comuque un paio di ore insieme fra case, stalle e santuari trogloditi. E` ormai il tramonto quando alla fine del villaggio incontro una fatina scalza che gioca col fratellino portandolo a spasso con una carretta, non pensano all’argent e ridono felici con gli occhi pieni di gioia come devono essere gli occhi dei bimbi, come dovrebbero essere anche quelli dei grandi. E` il crepuscolo quando siamo di nuovo a Matmata e come un incubo riappare subito la superguidazeccatuttofare che mi aveva già avvicinato stamattina, senza aver ricevuto in cambio la minima considerazione  ma da vero professionista dell’assillo riparte a raffica “cafè? Hotel? Ristorant? foto casa?  foto starWars? io amico benvenuto italia I love you amici Berlusconi giuventus  the best !” Mi esce un vaffanculo baritonale accompagnato da uno sguardo spiritato che dev’esse stato recepito bene  infatti inforca il motobecane e si dilegua.
Con la macchina mi  affaccio per qualche chilometro sulla strada per Tatouine, è un paesaggio inquietante fatto di monti brulli e ripidi qui è tutto friabile, precario, sul mare in lontananza saetta e ci sono le trombe marine e anche sopra di noi le nuvole sono scure e cariche di pioggia, quindi decido di tornare a Gabes per passare la notte. Italica pizza e poi parcheggio vicino al porto in uno slargo lontano dal fiume che mi sembra sicuro.
 

   

Venerdi` 3 ottobre 2008 da Douz a Ksar Ghilane – Tunisia

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Oasi di Douz

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Oasi di Ksar Ghilane

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Il Villaggio di Ksar Ghilane

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Il Forte nel Deserto

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Le Formiche del Sahara

 

Il Deserto di sabbia
Sveglia di buio per vedere l’alba sulla grande duna di Douz che è proprio davanti agli albergoni e poi non è cosi` grande. Il sole sorge gigante dietro le sagome delle palme, il cielo si incendia e le piccole dune del deserto prendono forma. Sono deluso dalla duna soprattutto perché decantata come la Grande Duna, mi aspettavo quacosa di simile alla Grande Duna di Erg Chebbi nei pressi di Marzouga in Marocco che avevo visto a gennaio. Questo è il desertino dei mille balocchi, alzato il sole si è scatenata la baraonda: i quad,  le moto e i fuoristrada alzano polvere e rumore, tutti in fila fanno una specie di girotondo fra le dune bianche davanti a noi e poi ritornano alla base, si alza anche un ultraleggero che fa dei microvoli di cinque minuti a rotazione, ma nel giro di mezz’ora tutto si quieta. Le dune sono piccole ma belle, di colore chiaro quasi bianco con i soliti magici ricami sinuosi di sabbia e ombra, è un posto divertente per giocare a fare salti e scivolate, pero` scalzi perché con le scarpe si fa troppa fatica e poi si riempiono di sabbia. Rientrano le carovane dei cammelli che hanno  portato i turisti a dormire nel deserto, in realtà molto vicini alla zona turistica ma infossati dentro le dune per coprire le luci del centro abitato, credo che abbiano dato un senso di Sahara selvaggio ai turisti, l’immagine dei cammelli in fila indiana fra le dune rimane comunque molto bella, ma lo spettacolo massimo di queste dunette sono i “Tombolamerda” gli scarabei che camminano veloci sulle dune lasciando una traccia simile a quella di due minuscoli cingoli. Camminiamo per tre ore fra le dune e poi rientriamo alla “grande” duna dove i finti Tuareg si stanno preparando all’arrivo dei turisti portando cammelli e allestendo le bancarelle di souvenir. Questo è un deserto per tour operator, c’è anche la pista dei go kart da sabbia che anche mi garbano ma non è certo questo il deserto che cerco. Attraversiamo un tratto della grande oasi rigogliosa con le sue tante palme ricche di caschi di datteri ricoperti con fogli di nailon per proteggerli dall’umidità della notte, poi passiamo dal villaggio appena oltre la zona turistica, questo è il paese dei cammelli ce ne sono a centinaia probabilmente le “navi del deserto” perlomeno in questa zona sono ancora legate all’uomo per il turismo in quanto le attività carovaniere sono ormai state soppiantate dai camion. Sono pochi chilometri ma è una  realtà completamente diversa da quella a ridosso della duna, fra le case semidisastrate, capre, cammelli, asini e tanta spazzatura. Proseguiamo in direzione Matmata, la strada è bella nel deserto roccioso si incontrano di tanto in tanto stentati cespugli dove pascolano piccoli branchi di dromedari selvatici, uno si ferma in mezzo alla strada ignorandomi, segno evidente che di traffico ce n’é poco, vale comunque la pena di fermarsi per godersi le espressioni ingonghi dei cammelidi e le puppate energiche di un piccolo, qualche foto e si riparte voglio andare all’oasi di Ksar Ghilane per vedere il vero deserto di sabbia, il Grande Erg Orientale. Le guide dicono che la strada è percorribile solo con i fuoristrada ma comunque vale la pena provare, dopo una settantina di chilometri sulla destra con a fianco un piccolo cafè, il bivio per l’oasi, ci sono tre persone, uno è un poliziotto e mi ferma, temo che mi dica che la strada è solo per i fuoristrada e invece è solo per chiedermi un passaggio per un collega che poi in realtà si rivela il direttore dell’accampamento fisso che si trova dentro l’oasi. La strada è agevole dritta e piena di dossi, meno male se no ci sarebbe da addormentarsi, man mano che si avanza le dune si sostituiscono alla roccia e la sabbia ogni tanto invade la sede stradale, dopo una trentina di chilometri, circa a metà strada incontriamo la stazione di un gasdotto, da qui la strada diventa sempre più stretta bisogna andare forte quando c’è la sabbia per prende’ ” la ire” come diceva il Moro. E` divertente un po’ come quando dopo le sciroccate serie, il lungomare di Campo si riempie di sabbia, solo che qui per evitare di rimanecci in mezzo bisogna entracci a palla. All`improvviso come un miraggio il villaggio, poco più che una serie di distributori (baracche circondate da fusti di benzina e gasolio) e di abitazioni con il tetto a botte e i panneli fotovoltaici, il tutto arso dal sole e senza nessun albero. E` il classico villaggio di frontiera dei film, quello prima del punto di non ritorno e in effetti, nonostante sia una zona ricca di petrolio, è l’ultima stazione di rifornimento prima di addentrarsi nel profondo sud Tunisino, il prossimo luogo dove è possibile rifornirsi è Borj el Khadra un avamposto militare, il punto più meridionale di questa nazione, che si trova a pochi chilometri da Ghadames la mitica città di carovanieri Tuareg nell’odierna Libia.
Walid (il nostro passeggero che nel frattempo si è svegliato) mi dice di proseguire a destra su una pista sterrata in direzione dell’oasi, due tre curve a novanta gradi e poi un tratto che finisce appena prima di rimanerci dentro, ancora qualche centinaio di metri e siamo all’accampamento nel cuore dell’oasi di Ksar Ghilane. Questa è proprio la classica oasi dell’immaginario colletivo, le palme, la sorgente, il laghetto e poi le dune tutt’intorno. E` incredibile con quanta forza esca l’acqua che  permette di irrigare un palmeto molto esteso che in alcuni tratti è addirittura allagato, il posto è molto bello e seguendo l’invito di Walid decidiamo di passare qui la notte. Intorno e dentro la pozza c’è un gruppo di tedeschi che fa il bagno, fa strano vedere le donne in bikini (e anche un po’ skifo perché so’ brutte) e la gente seduta che beve birra, ma questo è il turismo che violenta e omologa tutto anche le oasi. Fra qualche ora quando il sole sarà meno aggressivo vorrei andare a fare una camminata fra le dune fino a raggiungere l’antica fortezza di epoca Romana di Tivasar, che successivamente fu trasformata in ksour, di cui ho letto una descrizione molto appassionata. Dovrebbe trovarsi su uno sperone di roccia due o tre chilometri ad ovest dell‘oasi, chiedo a delle guide che si stanno riparando all’ombra del piccolo chioscho a bordo pozza che mi confermano i tre chilometri, ma quando capiscono che non ci voglio andare né in fuoristrada né in cammello i chilometri diventano prima cinque, poi sette e poi dodici, cosi` come i tanti pericoli che crescono con i minuti, pero` anche nel disappunto c’è comunque sempre cordialità.
Fa troppo caldo per entrare nel deserto, andiamo in giro nel palmeto dove c’è anche un albergo, l’unico punto rumoroso dell’oasi a causa del gruppo elettrogeno che da la corrente elettrica al complesso. Il palmeto è rigoglioso e ci sono tantissimi datteri, all’interno si trovano delle piccole radure dove pascolano pacifici dromedari, asini e cavalli, nonostante siano avvolti da nuvole di   mosche e zanzare. Il limite dell’oasi è segnato da grandi piante di tamerice, appena oltre troviamo delle dune alte una trentina di metri e molto ripide e bellissime, nonostante la luce accecante l’arancio dorato della sabbia contrasta con l’azzurro terso del cielo e le nuvole bianche sullo sfondo, è un posto ganzissimo per giocare a fare i salti, mi immagino quanto si divertirebbero i bimbi con cui facevo le escursioni all’Elba e mi riprometto di portare i bimbi Isolani in Africa per far partire “Basa Elba”. Prima di entrare nel deserto “vero” si ritorna al “villaggio di frontiera”  l’auto ti consente di vedere tante cose perٍ sempre troppo filtrate, per capire di più bisogna andare a piedi meglio se lentamente, in modo che oltre a vedere le cose che cerchi, vedi anche quelle che ti vengono incontro. Il villaggio delle cellule fotovoltaiche e dei dirtibutori dipinti con i loghi e i colori delle auto e delle moto da competizione che sono passate da qui qualche tempo fa, è un posto vero e duro e anche i suoi abitanti lo sono, ci guardano con sospetto come a dire il vostro recinto è dentro l’oasi qui si viene solo per fare rifornimento, una bimba dagli occhi di ebano mi squadra curiosa mentre sta scaricando delle stagne dal cassone di un camioncino, è bellissima e mi viene di fotografarla ma mi fulmina con uno sguardo di censura e non riesco a scattare. Mi trovo a girare fra le case rifugio in un clima di gelo nonostante gli almeno quaranti gradi, ma poi la curiosità ha il sopravvento e gli sguardi di soppiatto diventano cenni e poi sorrisi, come sempre il ghiaccio è rotto dalle donne che allargano i sorrisi da sotto i veli censori. Questo è un villaggio di venditori di benzina e cammellieri, isolato da tutto dove l’energia arriva dal sole per mezzo delle cellule fotovoltaiche che sono collegate a gruppi di batterie i quali fanno funzionare le televisioni e l’lluminazione, ci sono anche dei lampioni con i panneli come quelli sulla strada sopra il Macciarello, mentre per l’acqua c’è un pozzo. Un asino immobile si gode l’ombra del carretto che da croce si è trasformato in privilegio, le case sono circondate da muri per difendere l’abitazione dalla sabbia che il vento ci spinge contro, il tutto è  reso magico da incredibili nuvole bianche che come dirigibili immobili adornano il cielo. Mentre cammino fra i vicoli incrocio lo sguardo gentile di un bimbo che mi mostra fiero la sua meravigliosa bicicletta con una ruota sola con cui magari s’immagina pilota invincibile di moto da raid e mi ritornano in mente i pomeriggi passati a immaginarmi pilota da rally tutto rannicchiato dentro un macchinina a pedali ormai diventata troppo piccola, Salaam! Una voce ridente mi riporta a Ksar Ghilane, è un anziano del villaggio che assieme al nipote sta preparando i dromedari per andare all’oasi ad accompagnare i turisti, ne parla con rispetto ma anche come un corpo estraneo, facciamo un breve tratto insieme e poi ci salutiamo.
Il sole ora è meno forte e cominciamo a camminare, contrariamente a quello che pensavo non ci sono né dromedari né fuoristrada, i tedeschi  sono andati via e sono arrivati altri due gruppetti in fuoristrada di cui uno di italiani ma sono fermi dentro l’oasi. Iniziamo a camminare nel “mare di sabbia”  scalzi si cammina perfettamente, le parole qui sono di troppo e come quando vai sott’acqua osservi e immagazzini immagini e produci pensieri. Come il mare sotto, il deserto è silenzioso ed è anche apparentemente sterile e invece è vivo e sempre in movimento, se la guardi bene la sabbia anche quando sembra non esserci vento si muove e anche sotto i piedi è sempre in movimento, è solido ma assomiglia tanto al mare anche nell’illusione di sentire la sua voce che ti parla entrando direttamente nei pensieri. Le dune in questo tratto non sono molto alte e sono gialle, ogni tanto c’è qualche cespuglio erboso e anche qualche alberello isolato, su ogni duna il vento ha disegnato trame diverse mentre le nuvole bianche e plastiche rendono bucolico questo ambiente di prima impressione infernale. Poi esce il vento che aumenta velocemente e la sabbia vola dentro basse nuvole che bucano quando ti battono addosso, man mano che il sole cala le dune diventano di colore cangiante, arriviamo alle dune più alte che la luce è veramente bella, a poco più di un chilometro ora si vede bene il forte dove vola un aquilone, a fianco dello storico baluardo c’è un fuoristrada che gli leva un po’ di poesia, dall’altro lato vedo in lontananza dei cammelli che stanno venendo verso ovest. Due turiste americane alcolizzate con due accompagnatori arabi molto più giovani di loro, le babbione puzzano di alcool e assomigliano a Fulvia maga mago`. Del forte romano è rimasto poco e niente e anche lo ksour è fortemente compromesso, iniziamo a tornare indietro fermandosi sulle dune più alte per vedere il tramonto, ci sono dieci minuti di pura magia in cui le dune sembrano di materia impalpabile, tanto il gioco dei chiaroscuri ne fa cambiare continuamente la forma, poi all’improvviso appena tramontato il sole cominciano a uscire dalla sabbia delle bellissime formiche grigio metallo con le zampe rosse, sono frenetiche e mordaci e gli garba pizzica’ nei piedi, sono le Cataglyphis Fortis dette anche formica del sahara dicano che sia attiva anche con temperature esterne di  settanta gradi, i suoi segreti per difendersi dal caldo sono la velocità (per attraversare velocemente le zone assolate) e zampe lunghe (per tenere il corpo lontano dalla sabbia rovente) ma qui io le ho viste solo dopo il tramonto. Mentre il cielo si incendia a ovest e diventa algido e pallido ad est rendendo il paesaggio gelido e immobile, si cominciano a vedere le prime stelle quando da una grande tana esce un animale bianco, non riesco a identificarlo ma guardando le impronte penso che si tratti di un fenec la volpe del deserto. Ormai è notte, ma sotto le stelle camminare è ancora più bello, vedo i falo` degli accampamenti che sono a poche centinaia di metri dall’oasi, ecco dove erano finiti i cammelli visti prima, ancora quache passo e poi si rientra all’accampamento. 
   

Giovedi 2 ottobre 2008 da Sbeitla a Douz – Tunisia

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La Palestra

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Arco di Antonino

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I Templi di Giove Giunone e Minerva

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Dentro l`oued

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Oued Essaboun

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La Ferrovia

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Oued El Kebir

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Tozeur

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Chott el Jerid

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Lastre di sale

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Giochi di sale

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“Passano ancora lenti i treni per Tozeur”
Sbeitla, lo Oued el Kebir e il Chott el-Jerid
Mi sveglio che è già giorno, il cielo è sereno e regna il silenzio, la luce è molto bella e la pioggia che ha lavato tutto fa risaltare le pietre dei monumenti che brillano nel primo sole del mattino. Non c’è ancora nessuno, poi arriva l’addetto ai bigletti e si entra nella città. Camminiamo su un largo vialone lastricato che conduce alle grandi terme con annesse palestre, in alcuni tratti i pavimenti sono crollati e si vede benissimo il sistema di riscaldamento mentre dove i solai sono integri i pavimenti a mosaico sono bellissimi perché lavati e resi brillanti dalla pioggia. Come in tutte le città romane anche qui ci sono le scanalature per le porte a scorrere dei negozi e i pipi ritti di pietra che indicavano la via per raggiungere i lupanari. Come Bulla Regia e Dougga anche Sefetula fu costruita dai romani su una preesistente città Numida intorno al primo secolo e raggiunse il massimo dello splendore circa un secolo dopo, doveva la sua ricchezza alla campagna fertile ed era famosa soprattutto per la produzione dell’olio come testimoniamo anche i resti dei tanti frantoi, pero` a differenza di Dougga, rimase un centro molto importante anche sotto i Bizantini che ne fecero la città più importante della regione e la fortificarono per contrastare le ribellioni dei berberi. Nel 651 il prefetto Gregorio rese la città indipendente da Costantinopoli ma dopo pochi mesi il nuovo stato fu sconfitto dagli arabi che ne decretarono il declino.
Lasciate alle spalle le terme ci troviamo davanti il teatro che è molto grande pero` più che restaurato sembra ricostruito e stona con tutto il resto, il vialone principale ci porta davanti alla porta di Antonino, è uno dei monumenti più antichi della città risale a quanto pare al 139, un grande triplice arco dedicato a Antonino Pio e ai figli adottivi Marco Aurelio e Lucio Vero, dall’arco si entra nel grande foro tutto circondato da colonne e il magnifico Campidoglio reso ancora più bello dalle nuvole che sono spuntate alle sue spalle, come sempre il tempio di Giove al centro e quelli di Giunone e Minerva che qui ancora di più che negli altri siti visitati regalano una visione d’insieme di grandiosità e armonia. Quello del foro è uno spazio enorme costruito per accogliere centinaia di persone, stamani qui c’è sentore di magia con le pietre bagnate che luccicano al sole, è tutto cosi` maestoso e irreale, non c’è nessuno in questo monumentale e immobile silenzio. Spostandosi appena fuori si incontrano tre basiliche Bizantine costruite su preesistenti templi, la più grande è la chiesa di San Severio, la più bella è la basilica di SanVitale che fu costruita nel sesto secolo nel cui perimetro di mura si trovano tre fonti battesimali rivestite a mosaico perfettamente conservate, una con disegni di pesci che sembrano nuotare nell’acqua rimasta sul fondo per la pioggia, una tutta bianca e per ultima la più bella con richiami floreali che sembra una jacuzzi gigante tutta morbida con le tesserine piccole che ne rivestono le sinuosità.
Il sito è molto esteso e ricco di ville e templi, camminando verso nord ovest si incontrano i resti dell’immancabile arco dedicato a Settimio Severo, più avanti un grande anfiteatro ancora da scavare e poi il grande ponte che attraversa ancora il fiume Sbeitla, proseguo lungo il fiume che anche qui porta i segni del nubifragio notturno e poi poco prima dell’uscita il grandioso Arco di Diocleziano, ci sono dei giardini ricchi di fiori belli e un gruppo di giardinieri a chiacchera che quando ci vedono passare fanno finta di zappettare per poi fermarsi subito dopo.  
Ho una gran voglia di vedere  la zona del nubifragio e ripartiamo con l’intento di fare la strada di ieri fino a Douz, i fiumi sono di nuovo secchi qui la piena è come un treno che passa ma l’acqua ha scavato delle voragini impressionanti. Il paesaggio è caratterizzato da infinite distese di pittai, è completamente un altro posto rispetto a ieri, l’acqua nei fiumi e nei campi è scomparsa, è rimasto solo fango e tante voragini nel terreno. Arriviamo a Feriana anche lei irriconoscibile, il fiume è secco, ieri notte mi sembrava di vedere un treno ma non ero sicuro, il treno c’era e anche la stazione, la ferrovia è ricoperta di fango e sterpaglia strappate, mi fermo e faccio quatto passi nel letto del fiume, ieri sera l’acqua aveva almeno quattro metri di altezza. La vita scorre lenta e tranquilla come se non fosse successo niente, i pollai, che da queste parti sono minuscoli, raggiungono le dimensioni minime viste finora, sono infatti ricavati da vecchie botti di carburante.
Lungo la strada ci sono tanti distributori di benzina, niente a che vedere con quelli che siamo abituati a definire tali, sono dei banchini con taniche e bottiglie di varia capacità piene di benzina, miscela o gasolio, si va dalla bottiglietta da mezzo litro alla tanica da 25 litri e i prezzi sono chiaramente più bassi rispetto ai “distributori occidentali”.  
La strada è piena di tronchi e fango, finalmente vediamo cosa erano le misteriose luci della Steg, che chissà perché me la immaginavo come un immenso asadero argentino, è in realtà una centrale elettrica che pero` si pronuncia coma la bistecca dell’americani, è più o meno l’equivalente dell’Enel da noi. Passiamo sopra il ponte sul Oued Essaboun che ormai è diventato un torrentello ma anche qui le tracce della piena sono impressionanti, poco dopo un poliziotto ci mette in guardia sui pericoli della via e sulla possibilità che la guardia nazionale ci rimandi indietro, proseguiamo e dopo poco incontriamo il gasdotto transtunisino che porta il gas dall’Algeria alla Sicilia, ne avevamo visto la stazione di pompaggio sulla costa a nord di Kelibia i primi di settembre prima che la condotta diventi sottomarina.    
Il paesaggio è arido e la strada per una trentina di chilometri fiancheggia la ferrovia, proprio quella cantata da Battiato dove “passano ancora lenti i treni per Tozeur” la strada ferrata avanza a volte sopraelevata su piccoli ponticelli, a volte dentro gole strettissime con i binari stretti stretti che sembrano quelli di un trenino elettrico, è tutto molto cinematografico potrebbe essere il set di Lawrence d’Arabia o quello di un film western di Sergio Leone.
Un gruppo di camper olandesi che ci precedeva di poco sta tornando indietro, ci fanno segno che la strada è impraticabile, proseguiamo e dopo poco incontriamo lo Oued el Kebir (Il grande fiume). I segni della piena di ieri sono impressionanti, l‘acqua si è portata via un pezzo di strada e il fiume ha allargato l’ampiezza e la profondità del suo letto, ora la situazione è più tranquilla ma c’è sempre tanta acqua sopra il livello della via, la maggior parte di quelli che provano a passare ce la fa, quando qualcuno rimane in mezzo (uno su dieci) interviene un trattore con un gancio che tira fuori dai guai. La polizia controlla mentre fra gli automobilisti su entrambi i lati c’è chi prova e chi aspetta che l’acqua abbassi ancora di livello. Arriva il nostro turno e passiamo senza problemi.
Il paesaggio sta diventando sempre più desertico, aumenta il caldo e la vegetazione si riduce a qualche cespuglio, a pochi chilometri da Gafsa c’è un pozzo a bordo strada dove fanno la fila trainati dagli asini e guidati da bimbi i carretti con le botti, Il panorama è bello con le montagne scure che fanno da sfondo alle palme di Gafsa (l’antica Capsa dei romani) ma la città è fatta di palazzoni e caserme e c’è tanto traffico. Tiro dritto per Tozeur, ormai è deserto, non quello di sabbia ma terreno roccioso con qualche sterpaglia, con le montagne sullo fondo e un cielo allegro azzurro con le nuvole bianche e pancione, ritroviamo anche la ferrovia che fiancheggia nuovamente la strada, incontriamo un altro oued in piena che si è mangiato una strada e poi Tozeur dove finisce la ferrovia e finalmente incontriamo il treno. Tozeur è molto turistica me la facevo più esotica e fuori dal tempo, è più bella cantata da Battiato che dal vero, pero` c’è una pasticceria dove fanno le millefoglie bone. Ripartiamo alla volta del Chott el Jerid, il lago salato più grande della Tunisia, ha una superficie di quasi cinquemila chilometri ed è attraversato da una strada sopraelevata, è un posto molto suggestivo e anche la luce è quella giusta con le montagne sullo sfondo e il grande lago secco è un enorme specchio dove i blocchi di sale riflettono l’ultimo sole del giorno. Scendiamo nel Chott, si avanza in un paesaggio surreale camminando fra grandi lastroni di sale che schioccano sotto i piedi, le lastre sono facili da prendere si fratturano naturalmente come grandi mattonelle, i colori diventano sempre più belli fino al tramonto che arriva insieme al sorgere della luna, questo è uno dei luoghi dove è stato girato Guerre Stellari, da qui Luke Skywalker osservava i due soli, in effetti sembra di essere su un altro pianeta. Fino a qualche decennio fa qui si caricava il sale sui dromedari e si portava fino alle città, oggi è tutto meno poetico e il trasporto del sale viene fatto con i camion, aggregarmi a una carovana di dromedari che trasportano le lastre di sale è una delle cose che mi piacerebbe fare, qui non ce ne sono più ma in Sudan, in Ciad e in Niger mi hanno detto che si trovano ancora e inschallah forse riusciro` a farlo prima che anche questa secolare e rituale attività venga cancellata per sempre dal “progresso”.
E` ormai notte quando arriviamo a Douz, la cittadina considerata la porta del deserto, è più piccola di quello che pensavo, con la macchina andiamo a cercare la famosa grande duna di Douz, ma troviamo solo alberghi e cantieri, ormai è notte fonda domani la cercheremo meglio ma la premessa è abbastanza deludente, si mangia qualcosa e poi si va internet dove Serena crolla e si addormenta. Dormiamo nel parcheggio di un hotel quattro stelle all’ombra di un pullman e dei gipponi dei turistoni, con il consenso benevolo del guardiano.