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Tobruk e la follia della guerra La mattina comincia con una “litigata” con silenzio che voglioso di scaricarmi il prima possibile parte guidando come un demente nel traffico di Derna. Dopo la buriana calma piatta, dal finestrino scorrono scorci di mare bello e panorami di colline verdi, wadi secchi e tanti piccoli ginepri piegati dal vento, poi il paesaggio torna desertico con la solita strada dritta ogni tanto si vede qualche cammello e i pastori beduini in groppa agli asinini che controllano le piccole greggi di capre. Anche qui ci sono tanti lavori in corso lungo la strada, ampliamenti e condotti per portare l’acqua per avverare il sogno di Gheddafi che ha promesso al suo popolo una Libia verdeggiante nel giro di pochi anni. Arriviamo a Tobruk, il mare è bellissimo e la baia riparata e invitante, ma la città è un insieme di cubi grigi di cemento. Fu proprio questo porto riparato il motivo dell’importanza di questo luogo durante la seconda guerra mondiale. In alto a pochi chilometri dal golfo visitiamo il cimitero militare tedesco costruito dentro un austero forte militare, è un posto tetro con un interminabile elenco di nomi, oltre seimila. A qualche chilometro di distanza ne visitiamo uno degli alleati, migliaia di lapidi a ricordare nuovamente la follia della guerra, inglesi, polacchi, australiani, neozelandesi, sudanesi e tanti altri corpi militari africani che in quanto truppe coloniali erano quasi tutti pionieri e venivano usati per sminare. La maggior parte sono caduti tra i sedici e i ventitre anni e mette angoscia constatare che in questo cimitero i vecchi sono i trentenni. Ancora centocinqunta chilometri di deserto e arriviamo alla frontiera, le formalità sono più veloci del previsto la polizia di frontiera Libica è molto gentile e anche quella Egiziana anche se è tutto un altro mondo, la terra di nessuno fra le due frontiere è una larga strada dove bruciano cumuli di spazzatura, c’è una vasca piena di sapone dove passano camion e pulmini per lavare e disinfettare le ruote prima di entrare in Libia, i grassi doganieri egiziani non ci creano alcun problema anche se provano a chiederci qualche cadeau. L’asettica e pulita Libia è finita, nell’attesa di un taxi per Sallum andiamo a prendere un the, il sudicio e l’ambiente sono quelli del Marocco e anche il the che è tornato buono e la cucina è uno spettacolo con i tanti pentoloni incrostati. Partiamo alla volta di Sallum l’autista è un beduino con gli occhi di gatto e anche con il taxi siamo tornati agli standard marocchini, un vecchio peugeot 504 con tre file di sedili rimediati, in grado di portare dieci persone. Siamo su un altopiano la strada scende spettacolarmente a tornanti verso Sallum regaladoci un panorama di mare con i colori bellissimi, sotto di noi il piccolo porto e la cittadina, poi la costa si perde nell’orizzonte fra gigantesche dune bianche di sabbia. Fra un’ora parte il pullman per Matrouh cittadina sulla costa dove penso di fare base per riordinare un po’ tutto. Quarto paese africano e situazione diversa dalle altre, gli uomini vestono all’araba, i tratti somatici sono tanto diversi tra le persone, le donne sono tutte vestite di nero e velate si vedono solo gli occhi e la parte del velo che copre il volto è cucita alla parte superiore che copre la fronte, per evitare che si veda qualcosa. Con gesti eloquenti mi invitano a sedermi lontano dalle donne. È un insieme di situazioni diverse, carretti trainati dagli asini, via vai di gente che entra in Egitto dalla Libia, facce tanto diverse ma tutte interessanti e si ritorna a respirare la miseria, quella vera che avevamo lasciato in Marocco, anche il pullman è degno parente di quelli marocchini, tendine, sedili scassati e un cruscotto artistico. Si parte e si fiancheggia un altro cimitero militare queste sono le zone delle grandi battaglie della seconda guerra mondiale fra le truppe di Rommel e Montgomery. Il deserto di roccia riflette la luce di un sole caldo specchiandosi nelle migliaia di sacchetti di plastica che sono sparsi ovunque, mentre dal lato mare si ammirano ora vicine le spettacolari dune bianche. Ogni tanto Il pullman si ferma per far fumare gli uomini, ci fermiamo in un souk-autogrill dove seduta tra gli uomini fieramente fuma una sigaretta una prostituta egiziana, comunque anche lei velata anche se a volto scoperto. È ormai buio quando arriviamo a Matrouh, con un taxi urbano raggiungiamo il centro, anche qui siamo tornati alle modalità marocchine bisogna trattare sempre il prezzo. La città ha un lungo mare turistico costeggiato da albergoni, questa è una delle mete predilette dal turismo interno all’Egitto.Ci spostiamo nell’interno, nella zona del mercato della frutta dove troviamo un alloggio molto economico, il proprietario è un gentile egiziano che si definisce americano-egiziano, mi racconta che è nato a New York e un che d’americano ce l’ha, parla inglese biascicato e c’ha il sorriso stampato. Marsa Matrouh è un centro grande e pieno di vita la cosa più bella vista per ora è il mercato della frutta, è bella ed esposta in modo molto coreografico, lungo le vie ci sono tanti grigliaroli di pesce e cafè all’aperto pieni di gente, si cammina a mezze maniche e l’aria è secca mi viene da pensare al tempo umido e freddo di fine novembre dalle nostre parti. Ci mangiamo tre pesci mai visti ma buoni, una specie di incrocio tra il parago e la salpa, con il pane che fanno qui un pane sgonfio che viene cotto dentro fornettini lungo le vie il cui piano di cottura ruota mentre i dischi dell’impasto si gonfiano rapidamente e nel giro di un minuto viene già sfornato, è un lavoro praticamente continuo così come gli acquisti che si susseguono ininterrottamente, quando è caldo è buonissimo ma secondo me per fargli onore ci vorrebbe lo stracchino e la salsiccia. Per mangiare si va in un cafè qui è normale così, ti porti il mangiare e paghi tutto prendendo un the. Rispetto alla Libia è tutto più vitale e colorato ma anche più sporco e povero, però la varietà delle persone e delle merci è favolosa, anche le pasticcerie sono notevoli, altra piacevole sorpresa qui internet viaggia come una scheggia domani approfondiremo meglio ma sembre proprio il posto ideale per fare base e rimettersi in pari con elbaeumberto e gli altri lavori. |
Monthgennaio 2009
![]() Alessandro Magno
![]() Tempio di Zeus
![]() Monumento Navale
![]() Tomba di Batto
![]() Necropoli
![]() Apollonia
![]() Latrun
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{youtube}RlubIl40rlw{/youtube} Le meraviglie di Cirene, la città di Batto e Aristippo |
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Tolemaide e il mito di Omar al-Mukhtar Stamani è una bella giornata, ci lasciamo alle spalle il golfo di Bengasi con le grandi navi a rada, la strada scorre veloce lungo costa affacciata su un mare bello e dopo settanta chilometri raggiungiamo Tocra. Si attraversa un vialone sconnesso circondato da eucalipti e poi si inizia a trovare un paese semi abbandonato dove sembra che si sia appena verificato un terremoto, l’architettura è quella tipicamente italiana c’è anche una piazzetta, ma a parte un assonnato vecchietto su un carro trainato da un ciuco grigio non c’è nessuno. Il sito è proprio sul mare ma non si vede quasi niente dell’antica Tocra, una delle più importanti città greche dell’Africa che fu fondata intorno al 510 avanti cristo e che faceva parte della Pentapoli Greca. Il sito è praticamente abbandonato, su tutto spicca il piccolo fortino italiano proprio davanti al mare, entrando si trova una grossa estensione di catacombe greche e romane scavate nella tenera arenaria che ricordano quelle di Pianosa, girandoci dentro si nota che alcune sono state adibite a ricovero di capre e pecore e più avanti ce ne sono altre con chiare iscrizioni Bizantine. Camminando fra resti di colonne e capitelli si arriva al fortino dove c’è una lapide con una serie di nomi italiani (probabilmente coloro che edificarono il forte) e anche una bella meridiana nell’angolo, una scala erosa ci permette di arrivare sulla terrazza del forte da dove si vedono tra i cespugli i resti della città la cui rovina più evidente è la basilica bizantina dove ci sono ancora alcune colonne. Ci spostiamo verso il mare e scavalcando un muro si trova una scogliera e poi una bella spiaggia dove c’è il relitto arrugginito di una nave mercantile. Ritorniamo sulla strada dove ci attende silenzio e si riparte in direzione di Tolemaide, anche qui la costa è molto bella, ci sono grandi spiagge bianche deserte contornate da palme che fanno venire una gran voglia di mare, l’attuale abitato di Tolemaide ricorda quello più piccolo di Tocra e anche qui è evidente l’origine italiana delle strutture. L’area occupata dalle rovine di Tolemaide è molto estesa, sono circa tre chilometri quadrati e i ruderi emergono in un ambiente degradato fra baracche e greggi al pascolo. Ci fermiamo vicino al mare all’ombra di un bosco di eucalipti, ci siamo solo noi e un gregge di capre con le orecchie lunghe come quelle dei bassotti. In un edificio a pian terreno c’è un piccolo museo che raccoglie statue, sarcofaghi e dei mosaici molto belli fra cui uno secondo me eccezionale formato da tessere microscopiche che rappresenta una grande cernia, ci sono tantissimi reperti accumulati ancora da restaurare e cosa per noi molto interessante, pannelli e descrizioni in italiano. Passando da un ovile si entra nello scavo, più che un sito archeologico sembra l’esplorazione di una città abbandonata, in realtà Tolemaide si trova quasi tutta sotto terra e lo scavo effettuato riguarda meno del dieci per cento di tutta l’area. Nonostante l’abbandono si percepisce la grandiosità che doveva avere questo luogo costruito in una posizione favorevolissima fra il mare e la montagna del Jebel Akhdar le cui sorgenti, a cui era collegato da grandi acquedotti, fornivano acqua in grande quantità. Risalendo verso l’interno dal primo cardo troviamo i resti di una grande cattedrale bizantina costruita su strutture più antiche, mantiene un aspetto imponente con una doppia fila di grandi arcate e un’abside perfettamente conservata. Dal terreno emergono resti di grandi colonne e parte dell’antiche fortificazioni dove è ancora ben evidente ad Ovest la porta di Tocra. La cronostoria di Tolemaide ripete il classico schema delle città costiere Nord africane, nasce come insediamento fencio punico intorno al quinto secolo avanti cristo, poi diviene città greca, quindi Romana e poi nel quinto secolo bizantina, rimanendo comunque sempre uno dei centri più importanti della costa Africana fino all’invasione araba che ne sancì il definitivo declino. Anche qui ci sono le tartarughe, apparentemente uguali a quelle de La Galite, ogni tanto ne sbuca qualcuna tra sassi e cespugli mentre le capre con la loro voracità curano la manutenzione del sito. Il punto più spettacolare è la grande Agora successivamente trasformata in foro dai romani, è una grande piazza intorno alla quale ci sono i resti delle grandi colonne dei templi principali. Sulla pavimentazione ci sono diverse botole rettangolari da cui si vedono le capienti cisterne, considerate nell’antichità le più grandi dell’Africa. Colonne, ville e spazi pubblici si alternano, salendo troviamo altre spettacolari cisterne con delle scale che ci consentono di scendere sotto, questo era il serbatoio principale collegato alle cisterne sotto l’agora, da qui la preziosa risorsa idrica era distribuita in tutta la città. C’è ancora acqua all’interno delle cisterne, che sono state costruite in maniera precisa e raffinata, la parte inferiore è di origine greca ed è realizzata con grandi lastre di pietra, mentre la parte superiore in laterizio è successiva ed è stata ampliata dai romani, poco più avanti ci sono ancora i resti dei grandi archi dell’acquedotto che prendeva l’acqua dalle montagne alle spalle. Qui si incrocia il secondo cardo che scendendo ci porta alla “villa delle colonne” sembra fosse la villa di un ricco romano del secondo secolo, è questa la zona di Tolemaide dove sono stati compiuti i maggiori restauri, ci sono decine di colonne parzialmente ricostruite e sono state scavate numerose stanze alcune delle quali con i pavimenti a mosaico e le vasche delle piscine. Passeggiando fra cisterne, colonnati e reperti vari ci troviamo nell’odeon, un piccolo teatro greco poi trasformato in piscina dai romani, dalle tribune guardando verso nord sotto il cielo terso si vede un mare bellissimo e agitato che si infrange su scogliere e spiaggia, c’è anche un piccolo isolotto piatto e due relitti che ormai sono una consuetudine delle coste nord africane. Si riparte, la strada risale dolcemente il Jebel Akhdar , è una zona eccezionalmente verde per essere in Libia c’è una macchia rigogliosa con prevalenza di ginepro, ma c’è anche tanto pino d’aleppo, estesi cespugli di lentisco e grandi carrubi, poi la collina diventa un altopiano coltivato, il terreno è scuro e fertile dove ci sono centinaia di olivi dai tronchi secolari. La strada attraversa scorrevole la campagna ricca di fattorie e in mezz’ora arriviamo a Qasr Libia minuscolo villaggio conosciuto per il ritrovamento di una grande collezione di mosaici bizantini del VI secolo. Appena fuori dal centro su un colle c’è un fortino Turco Italiano e proprio di fianco il museo la cui struttura sembra una scuola italiana, i famosi cinquanta pannelli sono esposti sulle pareti e il più grande in terra, sono conservati splendidamente e sono interessanti perché mescolano il culto cristiano con le preesistenti credenze pagane, ma non hanno niente a che vedere con la bellezza, il fascino e la vitalità di quelli degli antichi romani. Il panorama rimane agricolo e mediterraneo fino ad incontrare il grande ponte in cemento armato e metallo, sotto scorre un affluente del Wadi al-Kuf, il paesaggio che si apre è aspro e selvaggio con pendii scoscesi e ricchi di grotte che si tuffano dentro strette gole, questa zona è famosa per essere stato il rifugio dei partigiani Senussi che si ribellarono all’occupazione italiana di inizio novecento. Questa terra è nota fin dagli albori dell’epoca classica per il temperamento guerriero e indomito della sua gente che si è sempre opposta e mai assoggettata alle dominazioni straniere che nei secoli si sono alternate intorno a queste fertili montagne. L’identità berbera non fu cancellata da fenici, greci e romani e nemmeno dagli arabi, nonostante l’avvento dell’islam che già nel seicentoquarandue aveva conquistato la Cirenaica, lo spirito ribelle dei berberi Libici non si sottomise mai alla dominazione araba e le varie fazioni che si sono susseguite a capo della regione fino all’anno mille non risolsero mai questo problema, furono i Fatimidi a risolvere il “loro” problema con un grande esodo di massa dalla penisola arabica. Le tribù dei Bani Hilal e i Bani Sulaim furono costretti a spostarsi nel Magreb, i Bani Sulaim si insediarono in Cirenaica mentre i Bani Hilal, circa duecentomila famiglie, si sparsero per tutto il Nord Africa. Questo vero e proprio esodo che tra l’altro portò alla distruzione di Cirene e di Tripoli, sancì la vera conquista araba della Libia, i berberi furono cacciati dai loro coltivi che vennero trasformati in pascoli dagli arabi e si trasferirono sulle montagne. L’indole ribelle mai spenta ritrovò vigore con il movimento Senusso intorno alla metà del milleottocento, questa setta nasce con Sayyid Mohammed Ali as-Sanusi uno studioso del corano che naque nell’attuale Algeria, dichiarandosi, come tanti, discendente del profeta Maometto, studia prima nella Madrassa di Fez in Marocco e poi al Cairo nella prestigiosa università al-azhar. Predica la Ijthab, interpretazione individuale delle tradizioni e delle sacre scritture, scontrandosi con i Dogmatici Ulema del Cairo che lo considerano un eretico ciarlatano berbero del selvaggio nord ovest africano. Praticamente espulso si trasferisce alla Mecca dove le sue idee trovano consenso, influenzato dal movimento Wahhabi che predicava rigore e ritorno al primo islam fonda la prima Zaouiat, torna quindi in Nord Africa nel 1843 e si stabilisce in Cirenaica dove trova terreno fertile tra la popolazione da sempre restia al potere centrale. Inizia a fomentare la rivolta contro gli invasori ottomani stabilendo il suo quartier generale nell’oasi di al-jaghbub e istituendo in poco tempo numerose zaouiat in tutto il nord africa e ottenendo gran favore da parte delle popolazioni beduine, guadagnando anche sempre più potere politico ottenendo una serie di vittorie senza usare quasi mai la forza. Nel 1880 il movimento con a capo il figlio Mohammed al-Mahdi trasferisce la propria capitale a al-kufra e in breve il debole governo ottomano si accordò assoggettandosi al movimento Senusso. Stimolata dall’inconsistenza del dominio ottomano l’Italia decide di partecipare alla colonizzazione dell’Africa attaccando il 3 ottobre 1911 con il pretesto di liberare la Libia dalla occupazione ottomana. Alla “liberalizzazione” seguì una violenta rivolta dei libici, anche se formalmente con il trattato di Losanna del 1912 i Turchi cedettero la Libia agli Italiani ma in realtà soprattutto qui in Cirenaica e nel Fezzan imperversavano le rivolte dei Senussi appoggiate anche se non ufficialmente da turchi e tedeschi che li rifornivano di armi. La resistenza maggiore fu soprattutto quella della Cirenaica dove a capo del movimento c’era il mitico Omar al Mukhtar lo sceicco senusso conosciuto come il leone del deserto. Omar al-Mokhtar nacque in Cirenaica nel 1958, la formazione delle zaouiat senusse gli dette una grande fede nell’islam e la convinzione dell’obbligo a ribellarsi con ogni mezzo alle occupazioni straniere. Combatté contro gli italiani durante la campagna del 1911-1917 e riprese a combattere nel ‘21 ottenendo una serie di insperati successi che lo trasformarono in mito e gli permisero di riunire le sempre divise tribù della Libia in un esercito di combattenti che contrastò per un decennio l’espansionismo coloniale italiano. Nel 1921 Mussolini decide di porre fine alle rivolte annunciando la riconquista della Libia con a capo il maresciallo Pietro Badoglio che intraprese una campagna punitiva di “pacificazione”. A Badoglio seguì il maresciallo Graziani che usò il pugno di ferro andando contro anche alle restrizioni previste dalla legge italiana e internazionale. Per porre fine alla resistenza sostenuta dai rifornimenti che arrivavano dall’Egitto, Graziani creò una barriera di filo spinato lunga quasi trecento chilometri che andava dal mediterraneo alle oasi di al-jaghbub e successivamente iniziò una deportazione di massa degli abitanti del Jebel Akhdar per negare ai partigiani l’appoggio della popolazione. Furono spostate oltre centomila persone e durante le deportazioni nei campi di concentramento morirono migliaia di persone, i documenti Libici dicono che fu sterminata circa la metà della popolazione della Cirenaica. Il colpo mortale alla resistenza fu dato dalla cattura del settantatreenne al-Mokhtar nel 1931, fu processato il 15 settembre e impiccato il giorno successivo. Si dice che Badoglio ricevuta la notizia della cattura ordinò di istituire un processo che poteva finire solo con la condanna a morte. Al-Mokthar mantenne un comportamento fiero e orgoglioso durante il dibattimento affermando serenamente “da dio siamo venuti e a dio dobbiamo tornare” e il suo avvocato italiano fu incarcerato per aver svolto il suo ruolo con zelo eccessivo, il giorno dopo fu impiccato nel campo di concentramento di Suluq davanti a ventimila prigionieri. La rivolta senussa era spenta ma era nata una leggenda che a quasi ottantanni di distanza è più viva che mai. Dopo la cattura di al-Mokhtar la ribellione si esaurì e nel 1937 Mussolini si autoproclamò protettore dell’islam offrendo cariche di rilievo ai leader Senussi e tra il 38 e il 39 ripetendo la tecnica usata un millennio prima dai Fatimidi, tentò il completamento della colonizzazione introducendo nel paese trentamila emigranti, flusso che portò a centomila il numero degli italiani presenti in Libia. Lasciamo le suggestive gole dei partigiani mentre arriva la sera e scendiamo verso Al-Bayda che si presenta come una cittadina tranquilla, ci sono diverse grandi moschee di cui una recente molto bella, le moschee libiche sono molto più eleganti e armoniche rispetto a quelle tunisine e marocchine. Silenzio stranamente si dilegua velocemente “meglio”. Un giro nelle vie illuminate di Al-Bayda dove ci troviamo circondati da curiosità e gentilezza, qui stranieri se ne vedono quasi mai e se ci capitano, solo di giorno e in gruppetti organizzati, in una pasticceria ci regalano anche dei dolcini buonissimi, ma è il clima amichevole la cosa più bella, anche dove ci fermiamo a mangiare un pollo alla griglia sono gentilissimi è un locale che assomiglia più a un’officina che a un ristorante, un ambiente molto magrebino lontano dai “classici standar Libici” un po’ asettici, qui è tutto unto e sgarrupato ma si mangia assai bene. E poi le solite battaglie a internet con le connessioni che vanno e vengono, anche questo è un posto strano a metà strada fra uno studio veterinario, una libreria e un internet point, sbirciando fra scheletri di plastica e libri di veterinaria faccio conoscenza con il gestore, è un ragazzo gentile mortificato per l’inefficienza di internet ma contento che siamo qui, ci dice che siamo i primi italiani che entrano qui, Kalid è un veterinario e tra poco verrà in italia per un master di specializzazione pagato dal governo, non vede l’ora di partire per Milano dove starà tre mesi. Ci salutiamo dopo essere stati accompagnati all’alloggio, grati per quasta ennesima lezione di civiltà e tolleranza che l’Africa ci ha regalato. |
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La tempesta di sabbia La strada scorre lungo il mare ed è contornata da eucalipti, palme e agrumi, la linea della costa è disegnata da dune bianche mentre nell’interno le case e le fattorie denotano l’origine italiana. Dopo qualche decina di chilometri la strada piega verso l’interno, il mare è vicino ma non si vede più e torna il deserto con la sua monotonia interrotta solo dai lavori di realizzazione del Grande Fiume dell’Uomo che in questa zona è già attivo anche perché Sirte è la città prediletta da Gheddafi. Si incontrano diversi cantieri e in lontananza si vede anche una grande diga di un bacino di raccolta su cui a quanto ho capito stanno facendo una copertura in plastica per ovviare ai problemi legati all’evaporazione. Breve sosta in un’area di servizio nei pressi di Sirte per un panino con la ciccia e poi si riparte continuando nel solito paesaggio. Piano piano la visibilità comincia a calare a causa del vento che sferza il deserto alzando una coltre di polvere che ben presto si trasforma in una tempesta di sabbia. Ogni tanto fra le nuvole di polvere si vedono i pastori di capre tutti fasciati nei loro turbanti a cavalcioni di minuscoli asinini che non sembrano turbati più di tanto dalla tormenta. Sulla strada il traffico è quasi tutto in direzione dell’Egitto, sono tanti pulmini di emigranti egiziani che stanno tornando nella loro patria per la festa dell’Eid el kebir. Sono stipati dentro pulmini bianchi sui cui tetti ci sono delle incredibili cataste di ogni genere di bagaglio, fra cui tantissime carrette nuove. Il vento è sempre più forte e sta riempiendo la strada di sabbia, troviamo anche un rimorchio di camion rovesciato e un mercedes distrutto. Dopo essere passati dal villaggio di Qaminis arriviamo a Bengasi secondo centro urbano della Libia in cui risiedono poco meno di un milione di abitanti, anche questa una città in grande espansione e le tracce di architettura italiana che qui dovrebbero essere più evidenti non sono di facile lettura. Cerchiamo posto in un fonduk che nell’ingresso ha una spettacolare cassaforte che sembra uscita da una striscia della Banda Bassotti e poi finalmente lasciati liberi da silenzio, andiamo a fare una mangiata di totani, ci sarebbe tanto bel pesce da grigliare ma qui friggono tutto, anche le cernie. Nel centro troviamo un ciber cafè molto bello, spazioso e con una buona connessione, dal web leggo notizie di scontri nei Tibesti fra l’esercito Libico e i civili Toubou. È un posto frequentato prevalentemente da studenti e c’è un clima tranquillo, mi sorprende la cassa dove non c’è nessuno, ma ognuno paga per conto proprio. I libici hanno un rapporto bello col denaro, è questo secondo me l’aspetto migliore e anche più interessate del sistema Libico, non c’è bramosia di denaro né gusto nel mercanteggiare, ogni cosa ha il suo prezzo e nessuno prova a guadagnarci sopra. |
![]() Arco di Settimio Severo
![]() Terme di Adriano
![]() Ninfeo
![]() Foro dei Severi
![]() Basilica
![]() I Mercati
![]() Settimio Severo
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Leptis Magna, La Roma d’Africa Stamattina ci ritroviamo con Tarek, come temevo si ripresenta con “silenzio” che dopo quindici giorni sembra essere ancora più stronzo. Andiamo subito al consolato per mettere sul passaporto il visto che ci consente di entrare in Egitto, il consolato è strapieno ci sono soprattutto egiziani in fila per rinnovare il permesso di soggiorno, in Libia c’è una grande richiesta di manodopera e per gli egiziani in cerca di lavoro questa è una delle mete preferite. Il nostro sportello è molto meno affollato, mentre aspettiamo facciamo amicizia con una coppia algerina anche loro qui per il visto d’ingresso per l’Egitto, sono in compagnia di una donna egiziana e stanno facendo il pellegrinaggio alla Mecca che raggiungeranno tra cinque o sei giorni perché, come mi spiega l’uomo, alle frontiere qui è sempre un casino. Alla Mecca starà sei giorni e poi il viaggio di rientro sempre in macchina per tornare in Algeria. Questo è il mese dell’Haj, uno dei cinque pilastri dell’islam, il pellegrinaggio alla città santa della Mecca che ogni buon Mussulmano dovrebbe fare almeno una volta nella vita. Ci chiamano per i nostri documenti, è tutto a posto, ci salutiamo con i pellegrini facendoci gli auguri per i rispettivi viaggi. Passiamo davanti al porto di Tripoli dove a rada troneggia una grande nave da crociera e poi proseguiamo in direzione di Leptis Magna. Il vento si è calmato e con lui anche il mare, la strada scorre lungo costa il lato orientale di Tripoli è più armonico e non ci sono palazzi di vetro, anche qui la città è in espansione ma ha una dimensione più umana e la costa sabbiosa con il porto peschereccio ha un che di familiare. La strada cammina in gran parte lungo mare contornata da olivi, eucalipti e pini sotto i quali spesso ci sono bancarelle che vendono arance, mandarini e limoni. “Silenzio” al solito tiene il broncio e fa silenzio, a un certo punto mette una cassetta di musica italiana anni settanta tenendo il volume bassissimo, suoni che sembrano uscire dai ricordi d’infanzia quando mamma ascoltava la hit parade alla radio, c’è anche quella canzone che un s’è mai capito se gli garbava la mamma o la figliola. Un paio di ore e arriviamo a Leptis Magna purtroppo il tempo è grigio e ci sono tanti pullman che hanno portato i passeggeri della nave da crociera vista prima nel Golfo di Tripoli a vedere la città resa immortale da Settimio Severo. però se siamo sfortunati per il tempo, ci va bene per l’affluenza perché i turisti se ne stanno andando tutti, è un’immagine evocativa con le squadre dei croceristi tutte ordinate in plotoni da una cinquantina di unità che stanno avanzando dal Cardo Massimo come tanti piccoli soldatini e mi permette di avere una percezione della vastità di questo sito, il tempo di entrare dentro e passare sotto il grandioso ma tozzo arco dedicato a Settimio Severo e siamo soli dentro la “metropoli del passato”. Leptis Magna è stata la più grande e importante città Romana dell’Africa che raggiunse il suo apice nel secondo secolo dopo cristo durante la dinastia imperiale dei Severi, tanto che secondo alcuni storici poteva rivaleggiare con Roma in splendore. La storia di Leptis ripete quella delle altre città costiere viste dell’Africa mediterranea, nasce nel VII secolo avanti cristo come insediamento fenicio, in seguito alla caduta di Cartagine nel centoquarantasei rimane brevemente sotto il regno Numida per poi diventare città romana. L’ascesa della città iniziò nel centoundici avanti cristo quando numerosi coloni romani iniziarono a trasferirsi qui in seguito ad un trattato di amicizia fra Roma e Leptis, dando grande impulso all’artigianato e ai commerci. Un secolo dopo sotto l’impero di Augusto, Leptis era già una delle città più importanti dell’Impero Romano con un’urbanizzazione importante e tanti monumenti. Nonostante alcune vicissitudini negative, come la conquista nel sessantanove dopo cristo da parte dei Garamanti, la città rimase sempre molto importante e continuò ad espandersi grazie alle ricchezze portate dal fiorente commercio con la penisola italica e ai prodotti artigianali realizzati con grande abilità dai suoi artigiani di origine romana. Una sostanziale svolta nell’espansione della città fu data intorno al centoventi dalla costruzione di grandi acquedotti, rendendo il sito ricco di acqua, fra i tanti vantaggi che ne conseguirono, anche la costruzione delle gigantesche terme volute dall’imperatore Adriano e a lui intitolate che ancora oggi sono uno dei monumenti più spettacolari di Leptis. Ma il momento di massimo splendore arriva alla fine del secondo secolo grazie a Settimio Severo primo imperatore romano di origine africana. Settimio Severo era nato proprio a Leptis Magna, nel centoquaracinque divenne uno dei più prestigiosi generali dell’esercito di Roma e nel centonovantatre fu proclamato Imperatore dalle sue legioni. Assunto il potere intraprese una serie di grandi battaglie tese ad ampliare e consolidare i confini di Roma e che ebbero successo tanto che nel duecentodue sconfitti i nemici iniziò un lungo periodo di pace. Qui inizia l’apogeo di Leptis quando l’Imperatore ritorna nella città natale con l’ambizioso progetto di rendere Leptis importante e prestigiosa quanto Roma. Appoggiato in questo disegno dalla ricca aristocrazia locale, in pochissimo tempo ingrandisce il porto e fa edificare maestosi monumenti facendo diventare Leptis la seconda città più importante dell’Impero. Ma nel duecentosette la pax terminò e l’Imperatore si mise nuovamente alla testa delle sue legioni e nel duecentoundici morì in Britagna a seguito delle ferite riportate in battaglia. Il figlio Caracalla, suo successore alle redini dell’Impero, si stabilì a Roma e così in seguito tutta la dinastia dei Severi, dando inizio al declino di Leptis che comunque continuò ed essere la più importante città romana d’Africa diventando in seguito sotto Diocleziano, capitale della provincia della Tripolitania. Il colpo mortale da cui Leptis non si riprese più fu il terremoto del trecentosessantacinque, il suo prestigio si spense seguendo il declino dell’Impero Romano pur rimanendo comunque un vasto centro abitato. Nel sesto secolo sotto Giustiniano diventa una città bizantina, poi nel settimo secolo subisce la conquista degli arabi e lentamente viene abbandonata fino a scomparire, come Sabratha, fra le sabbie. Appena superato l’Arco trionfale di Settimio Severo sulla destra ci si trova dentro il grande complesso delle Terme di Adriano, qui è tutto gigantesco, le vasche, le colonne e i pavimenti, il locale principale è il frigidarium, uno stanzone pavimentato di marmo e circondato da grandi colonne di marmo cipollino. La struttura è quella del classico impianto termale romano con i frigidarium, calidarium, le laconica (le saune), le vasche e le caldaie. È un ambiente gigantesco quasi tutto rivestito di marmi policromi e mosaici, che comunque nonostante le dimensioni rimane sempre armonico, è un impianto maestoso. Camminando tra rovine di abitazioni e acquedotti mi ritrovo dentro il Ninfeo dove fra le macerie fanno bella mostra una serie di colonne di marmo cipollino e granito disposte su due livelli. Si cammina fra cespugli e macerie in un contesto allo stesso tempo maestoso e apocalittico. Appena oltre la grande via colonnata ci si trova davanti un’enorme cascata di pietre alta più di dieci metri che si estende verso il mare, salendoci sopra si apre uno spettacolo incredibile, sotto di me i resti del complesso monumentale della Leptis Magna voluta da Settimio Severo con le rovine del tempio in cui si divinizzava il capostipite e tutta la dinastia dei Severi e il gigantesco foro lungo cento metri e largo sessanta dove riposano come carcasse di balene spiaggiate centinaia di tonnellate di colonne, capitelli, teste di statua e resti di archi e portali finemente scolpiti. Una quantità e una dimensione di reperti che lascia senza fiato, ci sono decine e decine di colonne di marmo e granito con diametri superiori al metro e decine di volti di donna scolpiti nel marmo con gli occhi a forma di cuore. Se possibile ancora più impressionante del foro è la basilica adiacente, solo leggermente più piccola rispetto al foro, ma resa ancora più imponente dalle due absidi. Nata come palazzo di giustizia fu terminata nel duecentosedici da Caracalla, nel sesto secolo fu trasformata in basilica cristiana da Giustiniano e in una delle due absidi si trova ancora una fonte battesimale. A fianco c’è una scala, è interdetta ma scavalcando una cancellata ci permette comunque di salire fino al tetto dove si può ammirare nella sua interezza quello che rimane della grande Leptis Magna che si estendeva in un’area di circa due chilometri quadrati e anche il mare agitato che si infrange tra le dune e le rovine. Il tempo sta peggiorando e comincia a scendere anche qualche goccia di pioggia, proseguendo lungo la via colonnata ci spostiamo verso il mare, è impressionante la quantità e la qualità dei reperti rimasti nonostante i tanti saccheggi e smantellamenti che la città ha subito nel corso dei secoli, anche qui i Francesi (a differenza degli italiani a cui si deve la riscoperta e il restauro di Leptis) si sono distinti come predatori e devastatori del patrimono archeologico. Agli inizi del mille e settecento Claude le Marie console di Tunisi, approfittando della sua autorità devasta senza nessun ritegno il patrimonio architettonico di Leptis, gran parte del materiale rimosso soprattutto le grandi colonne delle Terme di Adriano e del Foro dei Severi, furono poi abbandonate sulla riva perché non erano in grado di trasportarle e in gran parte giacciono ancora lì. Arriviamo al mare, del grande porto praticamente non è rimasta traccia e ormai giace da secoli sommerso da detriti, restando sul litorale ci spostiamo verso ovest, questa per me è la parte più suggestiva della città, vie e templi si alternano fra dune e cespugli di macchia fino ad arrivare al foro antico della prima Leptis Magna romana voluta da Augusto. Qui è tutto più modesto nelle dimensioni anche se è un termine improprio, si ha la piacevole sensazione di essere esploratori nel vedere mura e colonne che emergono dalle dune sabbiose del tombolo. Man mano che si risale verso l’interno il sito torna a essere più curato, si incontrano i mercati un’area con evidenti tracce di restauro circondata da bellissime colonne di granito dall’aspetto Elbano, in una delle due piazze principali c’è anche una pietra non originale dove sono indicate le unità di misura in uso nel terzo secolo, il braccio romano (51,5 cm) il piede romano o alessandrino (29,5) e il braccio tolemaico (52,5). Continuiamo a camminare fra templi e archi trionfali fino ad arrivare nel grande teatro, restaurato così bene da sembrare finto. Ci sarebbe ancora tantissimo da vedere ma i cancelli sono ormai chiusi e ci chiamano dall’uscita. Anche il museo ormai è chiuso, per oggi non si può vedere altro, era tanto che volevo vedere Leptis Magna che è veramente un luogo straordinario e domani vorrei continuare la visita, chiedo se domani mattina si può tornare almeno per qualche ora e colpo di scena: silenzio mi risponde e parla in Italiano! “No, allora parliamo chiaro domani si parte presto il vostro programma non va bene se volete vedere queste cose qua dovete fare un giorno in più e pagare se no si va solo dritti fino al confine” Con Serena ci si guarda sconcertati tra il divertito e l’allibito, accettato il giorno in più che mi sta anche bene e che prima sembrava impossibile, ci sistemiamo in una abitazione vicino agli scavi che sembra una casa italiana degli anni settanta, dove poco dopo arriva anche un gruppo di camperisti italiani. |
![]() I Garamanti
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Il Museo della Jamahiriya e il pennarello censorio Per prima cosa dobbiamo prelevare perché siamo a secco, qui in Libia non è semplice perché le banche non cambiano e i bancomat funzionano solo col circuito nazionale. Il posto per cambiare è il grand hotel el kebir che si trova poco dopo la piazza verde, è un albergone gigante e lussuoso pieno di metal detector e poliziotti in borghese, dove c’è un gran traffico di uomini d’affari. Dentro la hall, dietro una parete di vetro c’è il business centre e a fianco l’agenzia di cambio, c’è un gran fermento, evidentemente in questi periodi l’economia libica sostenuta dal petrolio sta attirando capitali e speculazioni. Si cambia e poi si va al castello Assai Al-Hamra per visitare il museo, nell’ampio ingresso davanti a un grande mosaico proveniente da Leptis Magna che ritrae combattimenti di gladiatori, è esposta in grande evidenza una statua di venere ritornata in Libia nel duemila dopo che era stata portata in Italia durante il periodo coloniale. Ritroviamo un grande albero fossile come quelli che abbiamo visto nel deserto dell’Acacus qualche giorno fa e fra il tanto materiale esposto c’è anche il maggiolone che Gheddafi usava nel ‘69 al tempo della rivoluzione. È un museo che si sviluppa in grandi spazi, nella sala dedicata alla preistoria ritroviamo le foto dei paesaggi e dei graffiti e pitture dell’Acacus e anche la famosa mummia del bimbo che il Prof. Fabrizio Mori trovò nel 1958 nel Wadi Tashwainat. La parte storica inizia con la sala dei Garamanti a cui viene data tanta enfasi anche per mostrare che la Libia aveva già una propria civiltà prima di essere colonizzata dalle potenze straniere, ci sono soprattutto resti di sepolture e dei disegni molto belli che finalmente ci fanno capire qual era l’aspetto di questi antichi abitanti del Fezzan, a metà strada fra gli antichi egizi e i rasta. L’esposizione prosegue con le sale dedicate ai fenici e ai greci dove rimango colpito da una bellissima raffigurazione delle tre grazie proveniente da Cirene, poi si arriva nella parte più grande del museo quella dedicata agli antichi romani, si entra in un enorme salone sapientemente illuminato, con ampie scenografie degne di holliwood, esposti ci sono grandi mosaici e gigantesche statue di divinità e imperatori. L’ambientazione è suggestiva e fra tanta bellezza spiccano le eleganti statue di Venere e Artemide che fiere e sensuali schiacciano in un confronto impietoso le cupe e imbacuccate custodi del museo. Si prosegue camminando fra le enormi statue bianche di personaggi come Adriano, Marco Aurelio, Lucio Vero …. Anche al piano superiore continua l’esposizione del periodo romano, insuperabile per grandiosità e ricchezza. Passando per il periodo bizantino si arriva all’arte islamica a cui viene dato tanto spazio, a me però non entusiasma, per come la vedo io dal punto di vista artistico è un’involuzione. Poi c’è tutto un piano dedicato ai costumi e alle tradizioni delle etnie libiche con ricostruzioni di scene di vita quotidiana e manichini abbigliati con i costumi tradizionali. Il museo torna interessante al quarto piano con la sala della resistenza dove ci sono raccolti tante foto e documenti, è sempre molto imbarazzante visitare un museo dove gli italiani sono visti come i nemici, avevo avuto la stessa sensazione visitando il museo della seconda guerra mondiale a Malta una quindicina d’anni fa. Fra le tante foto spiccano quelle dei partigiani a dorso di dromedario e quella di una fiera donna berbera armata. C’è anche il mitico ritratto di Omar Al-Mukhtar eroe indomito della resistenza libica passato alla storia come “il leone del deserto”. Mi incuriosisce una mappa dove con grande evidenza è segnalata l’Isola d’Elba, non so cosa sia ma mi sembra di intuire che qualche personaggio della resistenza libica sia stato confinato dalle nostre parti. Poi si passa nei saloni dedicati alla Libia rivoluzionaria che sono una grande celebrazione della figura di Gheddafi ritratto dall’infanzia ai giorni nostri, le pareti sono piene di foto del Colonello ritratto con tanti capi di stato fra cui una gigantografia insieme a Fidel Castro. Fra le tante immagini anche quelle delle donne soldato della sua scorta e poi una serie di ringraziamenti ed elogi fatti dal popolo libico al suo leader. Grande risalto è dato al petrolio con foto, panelli e una serie di ampolle in cui si conserva il prezioso idrocarburo, la massima ricchezza della Libia decantata come l’essenza più pura del mondo. Dal petrolio si passa alla celebrazione del Grande Fiume dell’Uomo, orgogliosamente titolato come l’ottava meraviglia del mondo. Per ultima la parte naturalistica in gran parte costituita da materiale raccolto da italiani, come testimoniano le didascalie interne, e una sala inquietante dove sono esposti una serie di animali deformi imbalsamti e feti mostruosi sotto spirito. Oggi è una giornata fresca, spira un vento forte da nord che ha alzato anche una mareggiata, cerco invano un fotografo per ripulire la macchina fotografica dalla sabbia del deserto, camminando per questa città si ha la sensazione di essere in Italia, i palazzi, le vie e anche i marciapiedi sono gli stessi. Ci troviamo davanti a un cinema che espone un gran manifesto del Leone del Deserto, il film dedicato a Omar Al-Mukhtar, all’esterno c’è anche la locandina del film del giorno “Facile Preda” dove alla protagonista è stata dipinta con il pennarello una censoria maglietta nera per non turbare i pudici mussulmani, mentre dentro il cinema in un angolino c’è la locandina originale con Cindy Crawford scollata. Tripoli è una città in grande espansione, nel centro è tutto un demolire e ricostruire, vengono abbattuti palazzi apparentemente in ottimo stato per ricostruirne altri più grandi e moderni, la zona commerciale è in grande espansione stanno nascendo decine di grattacieli, veri e propri colossi di cemento a acciaio, sono cantieri enormi che lavorano anche la notte in buona parte appaltati a ditte italiane. Di notte sbirciando fra le paratie metalliche che delimitano il cantiere si ha una visione apocalittica di ruspe, betoniere e gru che manovrano sotto la luce dei riflettori e tanti operai in tuta e elmetto che si muovono intorno come formiche. All’esterno gli operai alloggiano nelle baracche, ci sono le squadre che si stanno preparando al cambio del turno, sono tutte persone provenienti dall’Africa interna, probabilmente arrivati qui in cerca di fortuna con uno dei tanti camion che risalgono la Libia provenienti dal Ciad, dal Niger e dal Mali, ragazzi partiti da villaggi dove l’unica cosa sicura è la fame, luoghi dove si vive con poco più di nulla, si ritrovano a costruire alberghi, centri commerciali, sedi di banche e multinazionali finanziati dal petrolio libico. È tutto gigantesco e innaturale e mi domando cosa ne sarà di tutto questo fra cinquantanni quando le risorse petrolifere della Libia e probabilmente anche quelle idriche saranno esaurite. |
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Il Libro Verde e la Medina Africana Il venerdì è giorno di festa perché dedicato ad Allah, sabato le sedi diplomatiche sono chiuse, quindi per andare al consolato Egizio per i ivisti bisogna attendere domenica, oggi siamo liberi di muoverci senza “scorta” per Tripoli. Ci spostiamo verso la Piazza Verde che dovrebbe essere il cuore della Tripoli rivoluzionaria, ma si rivela anonima e deludente, un gran parcheggio con una larga via che gli gira intorno. Guardando il mare sul lato sinistro c’è il castello, il monumento più bello e imponente della città, fino agli anni settanta il castello e la piazza davano sul mare ma poi sono stati bonificati cinquecento metri di mare e ora prima di vedere le acque del mediterraneo bisogna attraversare uno stradone a quattro corsie e una serie di giardini. Sicuramente il castello con i bastioni affacciati sul mare doveva fare tutto un altro impatto, come del resto anche Portoferraio Medicea avrebbe tutt’altro fascino se fosse ancora separata dal resto dell’Isola dal fossato. Nella fortezza che in realtà è una cittadella fortificata si trova il famoso Museo della Jamahiriya, considerato uno dei più belli del mondo, entro per assicurarmi che anche domani sia aperto e mi compro la ventiquattresima ristampa del Libro Verde in Italiano, un libricino con la costola rigida dove è racchiuso il Gheddafi pensiero. Moammar El Gheddafi ha concepito il suo capolavoro una trentina di anni fa a seguito di un meditativo soggiorno nel deserto durato più mesi. Nel Libro Verde, che in pratica è la costituzione della Libia, è enunciata “la terza teoria universale” “la soluzione definitiva allo strumento di Governo per il mondo intero”. Per quanto grottesco secondo me ha degli spunti geniali e comunque la sua applicazione, vista da dentro la qualità della vita della gente nella dittatura socialista di Gheddafi, a me sembra decisamente migliore rispetto alle dittature filo Americane viste in Marocco e Tunisia, bisogna anche ammettere che governare una nazione con sette miloni di abitanti distribuiti sopra una steminata cisterna di petrolio agevola la gestione dei problemi. Dopo la “rivoluzionaria” lettura, andiamo a fare un giro nella medina, che non ha niente a che vedere con il fascino delle medine marocchine di Fes o Rabat, ma è comunque la parte più interessante di Tripoli. Le mura delle case e delle moschee sono le classiche di fango ma rivestite da uno spesso strato di calce bianca che le danno un’impronta tipicamente mediterranea, ogni tanto dai vicoli sbuca qualche terrazzino che insieme alle persiane ci ricordano il periodo italiano di Tripoli. Le Mura della Medina si basano sulle antiche fondamenta di Oea la grande città Romana che insieme a Sabratha e Leptis Magna formava la Tripolis, da cui ha origine il nome attuale, la posizione strategica di porto di collegamento fra l’Africa e l’Europa ne ha disegnato una storia tumultuosa e le sue mura hanno visto Bizantini, Normanni, Arabi, Spagnoli succedersi al suo controllo fino all’invasione turca del millecinquecentocinquantuno che in pratica mantennero il controllo fino all’arrivo delle truppe coloniali italiane nel millenovecentoundici. Camminare dentro la medina è come fare un viaggio nell’Africa interna, i Libici ormai non ci vivono più si sono trasferiti nella città nuova e qui ci vive e ci lavora solo gente proveniente dall’Africa nera, soprattutto dal Ciad, dal Niger e dal Mali, rendendo il clima gioioso per il modo più colorato di vestire e soprattutto per la musica vitale che si propaga nei vicoli, molto più ritmata ed energica rispetto alle alienanti litanie arabe. I vicoli brulicano di attività, ci sono tantissimi barbieri e tanti sarti che Serena dice usano anche delle buone macchine per cucire. Tornati verso la città nuova camminiamo lungo il mare fra fontane, giardini e bar di lusso super recintati, frequentati da gente stile milano da bere che mai mi sarei immaginato di trovare a Tripoli. In poche centinaia di metri si è passati dalla medina di fango al bar con le guardie del corpo, questo però nel Libro Verde non c’era scritto. |
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Il Grande Fiume dell’Uomo Facciamo colazione all’alba e poi ci salutiamo con Haroun, oggi si rientra a Tripoli e siamo sotto la responsabilità degli autisti. Ci viene a prendere un taxi immacolato, un lindo vito mercedes con al volante un autista tutto precisino che parla un inglese da Lord, ci fermiamo in paese per fare le fotocopie dei documenti da consegnare alla polizia nei vari posti di blocco e poi si parte alla volta di Sebha, dieci giorni di deserto mi avevano fatto dimenticare il rigido sistema Libico e il lusso dei loro mezzi rispetto al resto dell’Africa visto fino ad ora. Al campeggio di Sebha si cambia mezzo e si sale su un Mitsubishi Lancer guidato da un tipo silenzioso con un testone enorme a forma di cocomero. La strada è tutta dritta e risale verso nord fiancheggiando il deserto, la monotonia è interrotta solo da qualche cammello che attraversa la via e dai posti di blocco della polizia che sono dei baracchini in mezzo al nulla, poi è solo strada dritta fino a Shafren dove facciamo sosta come all’andata, nella grande area riservata ai distributori di benzina e alla ristorazione, ci mangiamo il classico sandwich kebab che sembra la specialità preferità dei Libici. Oltre ai soliti camionisti ci sono tanti militari e un gruppo di austriaci in fuoristrada che sembrano usciti dall’Afrika Korp, le donne e i bimbi non si vedono perché vengono fatti accomadare nei ristoranti interni a loro riservati dove gli uomini soli non devono accedere. Si riparte nel deserto di pietra, dopo poco incontriamo le tracce del grande fiume dell’uomo, il gigantesco acquedotto voluto da Gheddafi per portare le acque fossili del deserto fino alla costa. Questo progetto megalomane è ancora in fase di realizzazione ma alcune parti sono state già ultimate e stanno portando nella zona di Tripoli e di Sirte svariati milioni di metri cubi d’acqua al giorno. Il gigantesco acquedotto sotterraneo è formato da grandi tubi di cemento che vengono interrati a cinque sei metri di profondità e una volta ultimato si estenderà per oltre cinquemila chilometri formando anche un enorme deposito di stoccaggio di acqua. Il sogno di Gheddafi è quello di rendere verde tutta la fascia costiera Libica, il rischio è che in poche decine di anni si esauriscano tutte le riserve idriche del sottosuolo con conseguenze catastrofiche per il territorio e per la popolazione con il rischio di far fare alla Libia la stessa fine del Regno dei Garamanti. La strada prosegue nell’Hammada il deserto di roccia, ogni tanto nel nulla appaiono dei paesi in costruzione, grandi cantieri che sfornano paesi di impostazione moderna con palazzine a schiera, piazze e parcheggi e poi ancora il niente dove ogni tanto si incontrano delle piccole greggi di pecore che non si capisce cosa bruchino. In questo infinito rettilineo sotto il sole il rischio di addormentarsi alla guida è altissimo e poi cocomero ascolta da ore la stessa litania coranica che fa veni’ la voglia di ascoltare radio maria, si sta anche delle mezz’ore senza veder passare un mazzo, ma quando passano i convogli dei camion che portano i giganteschi tubi (larghi più dei cassoni) per il “Fiume dell’Uomo” ti svegliano di colpo dallo spostamento d’aria. Nel tardo pomeriggio finalmente il paesaggio comincia a cambiare, una larga discesa a tornanti ci fa scendere dall’Hammada e sull’orrizzonte qualche nuvola bianca da un’illusione di mare, testone abituato ai drizzoni del deserto sbocca tutte le curve, impugna il volante dal basso con i palmi rivolti verso l’alto stringendo con tutte e due le mani e ogni volta rimane incastrato nello sterzo, grazie a allah arriviamo vivi nel piano e si sbuca in un paese senza nome con chiesa italiana, il paesaggio è cambiato ci sono delle lenze di terreno fertile e tanti olivi. Siamo vicini a Tripoli ne attraversiamo l’infinita periferia rischiando continuamente di fare incidenti e finalmente a buio arriviamo nel centro. Qui veniamo presi in consegna da Tarek, il tipo che avevo contattato dalla Tunisia per ottenere il visto di ingresso in Libia, che ci accompagna in quella che dice essere la soluzione più economica di alloggio. Abbiamo un camerone che si affaccia su una delle vie principali dove troneggia una gigantografia del colonnello. “Hola! como estas” ci accolgono festose e curiose delle ragazzine che parlano spagnolo, sono una quindicina e alloggiano qui ospiti del governo Libico, sono qui per studiare sono esuli del polisario Marocchino e Algerino e le loro famiglie sono sparse fra Africa e Europa, soprattutto in Spagna, una di loro che ha la mamma che lavora a Roma parla italiano, mi dice che è di Layounne nell’ex Sahara Spagnolo dove sono stato quasi un anno fa. Ci sono problemi perché il Marocco non vuole riconoscere al polisario l’autonomia concordata e che la Libia, che appoggia il movimento, ha dato loro aiuto ospitandole e facendole studiare. Tripoli è una città con tanti grattacieli in costruzione e un gran traffico, ci sono tanti macchinoni e un gran gusto nel suonare il clacson, ci mangiamo una pizza e poi andiamo a dormire con gli occhi ancora pieni di deserto. |
![]() Mavo
![]() Gebraoun
![]() La Tomba di Aoun
![]() Umm al-Maa
![]() Mandara
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{youtube}aRzbqLi_5JA{/youtube} {youtube}WAJEhofhCuU{/youtube} Gebraoun il villaggio dei Dawada, i mangiatori di vermi |
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La Città dei Garamanti Durante la notte ha fatto tanto freddo, la più fredda da quando siamo nel deserto e stamattina la sabbia è gelida, intorno alla tenda ci sono tante impronte, quelle conosciute dei topi e del fenek e altre più grandi che Haroun mi conferma essere dello sciacallo. È una giornata bellissima e in lontananza le dune più alte iniziano a colorarsi con i primi raggi del sole, saliamo verso l’alto per dare l’ultimo saluto al Murzuq. Nella notte il vento ha disegnato nuove trame di sabbia le nostre impronte di ieri sera sono ancora perfette sottovento mentre sul lato esposto sono scomparse e al loro posto ci sono tante piccole ondulazioni, con il primo sole il Murzuq si colora di rosso mostrandosi in tutta la sua imponenza, purtroppo il trecento è definitivamente ko l’obbiettivo non funziona più probabilmente a causa della polvere. Appena tornati al campo si smonta la tenda e si parte, perdiamo quota avanzando verso nord attraversando gole di sabbia dalla forma indefinita, incontriamo una grande duna rossa e poi un mare giallo e liscio, poi ancora dune, se ne risale una piccola catena per poi scendere verso quella che viene chiamata la duna bianca che in realtà è un grande accumulo di gesso ricordo di un antico lago da tempo scomparso. È una distesa di gesso secco e fratturato, somiglia a una gigantesca pulitura di paiola dove è stato impastato il cemento bianco, anche la sabbia qui intorno è ricca di gesso, è un po’ bianca e un po’ grigia ed è molto pesante. Ci spostiamo sul margine esterno delle dune e usciamo dal Murzuq tornando nel mare di pietra nera ogni tanto interrotto da zone terrose dove, oltre ai “cocomerini”, si sviluppa una piccola savana di acacie. Avanziamo su questa terra piatta e polverosa con la sagoma infinita del Murzuq sempre sullo sfondo e poi ritroviamo l’oceano di pietra la cui monotonia è interrotta solo ogni tanto dai segnali messi dai ricercatori di petrolio, in realtà questa grande pianura è la montagna nera del Msak Settafet. Improvvisa davanti a noi si presenta un’apertura nella montagna e dall’alto si domina la striscia verde dell’oasi di Germa e il suo abitato con sullo sfondo il maestoso deserto di Ubari. Siamo tornati nel Wadi Al-Hayat che avevamo già attraversato arrivando da Sebha e da qui l’infinita distesa di roccia ritorna ad essere una montagna nera. Passiamo un controllo di polizia ed entriamo a Germa, è forte la sensazione di essere in un villaggio di confine, non tanto come nazione ma proprio come territorio abitato dall’uomo. Ci fermiamo a fare un po’ di spesa, come sempre in Libia i prodotti d’importazione abbondano, ci sono le banane dell’Ecuador, le mele della Val Venosta e la Nutella. Tutto è molto tranquillo e silenzioso, la maggior parte degli uomini veste alla maniera tradizionale Tuareg con il turbante che copre tutto il volto, donne in giro non ce ne sono ed è ci sono i bimbi che guidano le auto. L’oasi che da lontano sembrava grande, in relatà è piuttosto strimizzita e al suo interno c’è tanto secco. Attraversata l’oasi ci fermiamo ai margini del deserto di Ubari, una pianura arida con qualche acacia e tanti cumuli di terra che con l’effetto miraggio assomilgliano a tante piccole isole e poi ci spostiamo verso le rovine di Germa Antica. Dell’antico insediamento non rimane quasi nulla, solo qualche perimetro di mura, i resti di una grande villa di un ricco mercante romano, le tracce di un tempio dedicato a una divinità egizia e un po’ di rovine di architetture risalenti al periodo romano. Ma la parte più affascinante è quella della successiva fortezza berbera edificata con mura di fango, che il tempo ha sgretolato e reso spettrale, ci sono i resti di diversi torrioni di avvistamento e di diverse abitazioni più recenti alcune delle quali sono state restaurate e altre tracce relativamente recenti perché comunque l’insediamento è stato abitato fino a pochi decenni fa. Germa era la capitale del regno dei Garamanti i mitici condottieri delle quadrighe del deserto che abbiamo visto raffigurate nell’Acacus, popolazione che il tempo ha disperso ma di cui i Tuareg si riconoscono eredi. I Garamanti sono una delle civiltà antiche più misteriose ed affascinanti, su di loro non sono mai stati fatti studi approfonditi e gli scritti lasciatici dagli storici dell’antichità sono pochi, si sa che erano di pelle chiara probabilmente di origine mediorientale e si presume che vivessero già in insediamenti stabili da prima del mille avanti cristo. Il primo a parlarne è Erodoto nel 500 a.c. che ci racconta che coltivavano con l’aratro cospargendo di terra fertile il terreno salato, che allevavano bovini con le corna così grandi che erano costretti a pascolare a ritroso e che a bordo di carri trainati da quattro cavalli cacciavano i veloci “Etiopi trogloditi” del deserto per renderli schiavi. I Garamanti erano rinomati nell’antichità come eccellenti allevatori di cavalli e abili carovanieri specializzati nel commerciare su lunghe distanze , come predoni e venditori di schiavi, ma la loro prosperità era legata soprattutto alla grande abilità nel raccogliere e convogliare le acque fossili del sottosuolo che permise loro di sviluppare una fiorente agricoltura, con grande maestria costruirono centinaia di canali sotterranei chiamati in arabo “Foggara” per portare l'acqua nei campi, alcuni dei quali vengono usati ancora oggi. Questa grande capacità di ingegneria idrica decretò il loro dominio sul territorio ma fu anche causa del loro declino perché le riserve di acque fossili piano piano andarono esaurendosi e la falda si abbassò progressivamente fino a prosciugarsi. Agricoltori e predoni i Garamanti però non conoscevano l’uso della metallurgia, mancanza a cui supplivano commerciando con gli empori della costa mediterranea, chissà se nell’antica Garama è mai arrivata una spada forgiata con l’Oligisto Elbano e se all’Elba sia mai arivato un gioiello adornato con l’amazzonite, una preziosa pietra dura conosciuta anche come smeraldo garamantico, che i Garamanti estraevano nei monti Tibesti. I Garamanti grazie al loro isolamento geografico non subirono mai aggressioni da punici e greci, mantenendo integre le loro usanze che pare fossero assai originali, le donne che erano le padrone delle abitazioni erano un bene della comunità e il loro prestigio aumentava con il numero degli amanti; i bimbi erano proprietà della madre fino all’adolescenza, quando l'assemblea di saggi ne stabiliva la paternità in base alla somiglianza fisica, la donna godeva di elevato prestigio e vigeva il matriarcato, come oggi fra i Tuareg. Una ferrea regola impediva che gli anziani gravassero sulla collettività e arrivati a sessanta anni i Garamanti si dovevano uccidere strangolandosi con un budello di bue. Il loro dominio su Garama e i suoi territori finì intorno al settanta dopo cristo per mano dei Romani che stufi delle loro azioni di razzia sulla costa e a seguito di alleanze militari con gruppi berberi nemici, attaccarono e sottomisero Germa. La città e la sua gente si romanizzarono ma rimasero comunque sempre legate alle loro tradizioni culturali e religiose e mantennero il proprio re. I Garamanti avevano culti religiosi simili a quelli egizi e i loro re venivano sepolti in piccole piramidi (ne abbiamo viste alcune restaurate, che in realtà non hanno un gran fascino, più che restaurate sono ricostruite, poco prima di entrare a Germa). Garama diventa una città Romana anche architettonicamente ma il regno dei Garamanti continua per un paio di secoli a governare un territorio assai ampio, poi come abbiamo detto la civiltà urbana fu sconfitta della mancanza di acqua e la maggior parte dei Garamanti tornaronono alla vita nomade abbandonando l’agricoltura e specializzandosi nella pastorizia e nel saccheggio. Il regno e Garama comunque rimasero e nel 569 il re dei Garamanti firmò un trattato di pace con i Bizantini accettando anche il culto cristiano. Storicamente il regno dei Garamanti si chiude con l’avvento dell’islam nel 668, documenti arabi ci dicono che il re dei Garamanti venne portato via in catene dai maomettani e tutta la regione abbracciò l’Islam. L’attività carovaniera rimase comunque prerogativa della gente del deserto che presero il nome di Tuareg, che ancora oggi sono quello che ci rimane di questi indomiti guerrieri e abili idraulici del passato. Dopo un paio d’ore ci ritroviamo con Yaya e ripartiamo alla volta del deserto di Ubari, anche questo è un mare infinito di sabbia che si estende per centinaia di chilometri verso nord ovest ricollegandosi al Grande Erg algerino. Nel primo tratto ci sono tante tracce di fuoristrada anche perché questo è un deserto molto più battuto rispetto al Murzuq e qui vicino ci sono i famosi laghi Ubari che andremo a visitare domani, ma poi spostandosi lateralmente si ritrova una zona più incontaminata dove montiamo il campo e andiamo a fare una camminata. Qui le dune non sono enormi come quelle del Murzuq, ma hanno forme più morbide e rotondeggianti e i colori sono meno rosati, fra due campi di dune si incontra una grande radura con qualche cespuglio dove il vento ha modellato tante minuscole dune disegnando un’icredibile trama di disegni geometrici che acquistano profondità e magia nel gioco di luce e ombre del tardo pomeriggio. Dopo il tramonto rientriamo al campo portando un po’ di legna per il fuoco, qui il freddo si sente ancora di più per via dell’umidità dovuta alla presenza dei laghi. |
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